Come credo sappiano tutti gli insegnanti e gli appassionati di Yoga,
fino alla prima metà del XX secolo i versetti di Patañjali e il commento di Vyāsa venivano considerati
un’opera unica chiamata semplicemente Yoga-Darśana (“visione dello Yoga” o “insegnamento
dello Yoga”) e, dato che Vyāsa potrebbe è un nome proprio, ma un “ruolo” – “colui che
arrangia i testi”, “colui che compila i testi” – la possibilità che versetti e commento fossero opera dello stesso autore è
tutt’altro che da scartare.
Sia che il Vyāsa dei commenti e Patañjali
siano la stessa persona, sia che si tratti del saggio Vyāsa compilatore dei Veda e dei Puran̤a e ideatore della filosofia Vedānta, sarebbe logico che i traduttori
moderni tenessero conto delle sue spiegazioni, e invece, con sorpresa, ho
verificato che sono pochi coloro che tengono in considerazione il commento
originale e ancora meno sono coloro che lo citano.
I moderni
traduttori sembrano preferire l’interpretazione personale - talvolta
interessantissima, bisogna dire - a quella di Vyāsa, che potrebbe anche essere, addirittura, opera dell’autore stesso
dei Sūtra.
Se si
trattasse di un romanzo storico o di una poesia d’amore, non ci sarebbero
problemi, in quanto l’erudizione e l’intuizione condurrebbero, probabilmente i
traduttori a compilare versioni in genere rispettose delle volontà dell’autore;
ma nel caso dello Yoga Sūtra potrebbe crearsi dei problemi a
causa di due fattori diversi:
1. La natura del sūtra, inteso come forma letteraria;
2.
La natura del
testo, che è di fatto un manuale tecnico dedicato a praticanti, si suppone
esperti, di Yoga;
Per ciò che
riguarda la natura del sūtra è bene ricordare che si tratti di
un genere letterario caratterizzato dall’uso di versi assai brevi, chiamati
anch’essi sūtra, “cordicelle” - spesso formati da
due o tre parole al massimo; l’estrema concisione e – altra caratteristica del sūtra – l’abitudine a dare significato
soggettivi a determinate parole o singole sillabe rende necessaria una lunga
serie di commenti e spiegazioni, per favorirne la comprensione.
In origine la funzione del sūtra era, molto probabilmente, mnemonica,
nel senso che l’allievo imparava brevi versi – come noi impariamo a memoria le
formule matematiche – cui si collegava, mentalmente, la spiegazione del maestro
o del “compilatore”; è un procedimento simile a quello usato nel teatro
occidentale per interpretare una parte: si memorizzano le battute del
personaggio che si vuole interpretare sapendo che ad ogni frase o addirittura
ogni parola, corrispondono una serie di movimenti, espressioni e interazioni
con gli altri attori, movimenti espressioni e interazioni che non sono necessariamente
collegati al significato letterale delle battute.
Per ciò che riguarda, invece, la natura del testo è ovvio
che si tratta di un manuale pratico ad uso di esperti praticanti di yoga, con
una conoscenza non elementare delle pratiche fisiche, della meditazione e della
filosofia indiana; in special modo, a giudicare dai termini usati, sembra che
l’autore faccia riferimento al buddhismo e alla scuola saṃkhyā, e la cosa è assai rilevante,
giacché alcune parole e concetti che si usano comunemente nell’ambito dello
yoga – come dharma, karma, jīva ecc. - assumono significati diversi o addirittura
contrastanti, a seconda della scuola di riferimento.
Per avere un’idea di come sono scritti i sūtra di Patañjali prendiamo
adesso due versetti, uno più o meno comprensibile ed uno assai oscuro il 2.7 e il 3.13:
Il versetto 7 del secondo pāda recita così:
2.7. सुखानुशयी
रागः ॥७॥
sukhānuśayī rāgaḥ ॥7॥
-
Sukha significa “piacere”, “godimento”, “felicità”;
-
Anuśayī/Anuśaya significa “pentimento”, “rimorso”;”rimpianto”,
“tristezza” ecc. ma, a detta di tutti i commentatori, in questo versetto va
interpretato nel senso buddhista di Anusaya (vedi: https://www.palikanon.com/english/wtb/dic_idx.html), ovvero: “attaccamento”,
“tendenza di fondo”, “ossessione”;
-
Rāga significa infine “passione”, “colore” (il colore rosso
in genere), rossore.
Quindi abbiamo “piacere” + “ossessione/attaccamento” + ”passione”
che possiamo interpretare con un minimo di intuito, come “Rāga è
l’attaccamento al piacere”. I commentatori moderni tradurranno poi Rāga con
“brama di possesso” o “desiderio” o “attaccamento” a seconda della loro personale
visione, ma nonostante sia conciso il versetto 2.7 sembra essere di facile interpretazione.
Vediamo adesso il sūtra 3.13:
3.13. एतेन भूतेन्द्रियेषु धर्मलक्षणावस्थापरिणामा व्याख्याताः ॥१३॥
etena
bhūtendriyeṣu dharma-lakṣaṇāvasthā-pariṇāmā vyākhyātāḥ ॥13॥
In questo caso
la situazione è assai più complessa, sia perché il versetto è tutt’altro che
conciso, sia per il significato particolare dato ad almeno quattro parole su
otto.
Cominciamo dalle
parole il cui significato si può facilmente rintracciare sui vocabolari:
-
Etena (eta) significa “da questo”, “da ciò”, ovvero
dai versetti precedenti che parlano di tre “modificazioni della mente chiamate
“nirodha pariṇāma, samādhi-pariṇāma e
ekāgratā-pariṇāma”;
-
Bhūta ha almeno 20 significati diversi, ma in
questo contesto – ovvero lo yoga – si intende di solito come elemento
grossolano (Terra, Acqua ecc.) o, talvolta, come elemento sottile (odore,
sapore ecc.);
-
Indriyeṣu (indriya), locativo
plurale di indriya, significa “negli organi di senso” (naso, lingua
ecc.) ma può indicare anche gli organi di azione (mano piede ecc.) o insieme,
gli organi di senso e gli organi di azione;
-
vyākhyātāḥ (vyākhyāta) significa “descritto”,
“spiegato”, “è stato spiegato”.
Per
ciò che riguarda le altre parole del versetto, ovvero dharma, lakṣaṇa, avasthā e pariṇāma (pariṇāmāḥ) i vocabolari sono solo relativamente utili.
La
parola dharma che solitamente viene intesa come “legge”,
“giustizia”, “virtù”, “merito”, “moralità”, “religione” nel versetto 3.13 secondo
il commento di Vyāsa, indica le “proprietà” o le “caratteristiche” di
una sostanza o, meglio, di un “substrato”, chiamato dharmī.
La
cosa è decisamente complicata, tanto è vero che Vyāsa usa molte metafore
per tentare di spiegare il versetto, come, ad esempio, la metafora
dell’argilla:
dharmī è l’argilla e dharma
è il vaso o il bicchiere o la statuetta che puoi ottenere dall’argilla.
Lakṣaṇa, che vuol dire “segno”,
“indicazione”, caratteristica”, nel versetto 3.13 significa genericamente “caratteristica
secondaria” – ovvero subordinata a dharma - e specificamente indica la trasformazione del
dharma nel tempo:
Per
riprendere l’esempio precedente l’argilla, il vaso e il vaso, eventualmente
rotto, sono tre lakṣaṇa ovvero tre
caratteristiche secondarie del vaso, che, a sua volta, è un dharma dell’argilla.
Il vaso è il “futuro” rispetto all’argilla (e
all’idea di creare il vaso), mentre per il vaso rotto è il passato.
Per ciò che riguarda avasthā genericamente
significa “stadio”, “condizione”, ma può essere interessante che si tratta di
un termine tecnico sia del teatro-danza indiano sia del tantrismo Śaiva.
Nello
specifico nel teatro-danza riguarda le cinque fasi dell’azione di un “eroe”
teso al raggiungimento di un oggetto (la vittoria in battaglia, la donna amata
ecc.)[2].
Ovvero:
- Prarambha (inizio);
- Prayeratna (sforzo);
- Prāptisambhava (possibilità di raggiungimento);
- Niyataprāpti (certezza del raggiungimento);
- Phalayoga o phalaprāpti (raggiungimento dell'oggetto).
Nel tantrismo Śaiva riguarda invece i “cinque stati della mente” o pañcāvastha[3], simili o identici, ai cinque cittabhūmi[4] di cui parla Vyāsa nel commento allo Yoga Sūtra:
- Ghūrṇi, vorticoso;
- Nidra, sonno;
- Kampa, tremore;
- Udbhava, ascesa;
- Ānanda, beatitudine.
Nel
caso del versetto 3.13 avasthā riguarda “la diversa condizione”
dell’oggetto, o dharma.
Il
vaso di argilla può essere ad esempio, nuovo o vecchio, integro o rovinato ecc.
Per quanto
riguarda pariṇāma, secondo il
dizionario Monier-Williams può assumere decine di significati diversi - ovvero
“cambiamento”, “alterazione”, “trasformazione”, “sviluppo”, “evoluzione”, “maturazione,
“maturità”, “appassire”, “digerire”, “declino”, “declinare”, “emissione”, “conseguenza”,
“risultato” ecc. – ma nel nostro caso bisogna tener conto del significato
specifico che assume nel Sāṃkhya, dove indica una
caratteristica primaria – dharma – di prakṛti, ovvero il
“flusso” generato dall’alternarsi dei guṇa, rajas, sattva
e tamas.
Questo
flusso può essere di due tipi:
-
Svarūpa-pariṇāma (o sadṛśa-pariṇāma) che è il
flusso “omogeneo” che insorge durante la fase di dissoluzione o scioglimento della
manifestazione (pralaya). Nel flusso di svarūpa-pariṇāma tamas,
sattva e
rajas sono in equilibrio e ognuno di essi “si trasforma in sé stesso”.
-
Visadṛśa-pariṇāma (o virūpa pariṇāma) che è il flusso
“eterogeneo che insorge nel momento del contatto tra prakṛti e puruṣa, causando lo
squilibrio dei guna e l’inizio della manifestazione.
La
cosa più importante da osservare è che pariṇāma è un qualcosa di
“insito nella natura stessa” e dato che la mente è una “determinazione della
Natura pariṇāma è anche una delle caratteristiche
fondamentali della mente, ovvero uno dei “cittadharma”.
Citta ha due
tipi di dharma (attributi).
- - Paridṛṣṭa, ovvero direttamente percepibili;
- - Aparidṛṣṭa ovvero non percepibili.
I cittadharma
aparidṛṣṭa sono sette:
- 1. Nirodha;
- 2. Dharma;
- 3. Saṃskāra;
- 4. Pariṇāma;
- 5. Jīvana (vitalità);
- 6. Ceṣtā (volontà);
- 7. Śakti.
Continuare
con la spiegazione del versetto 3.13 sarebbe lungo e non so quanto utile.
Mi limito a far notare che nirodha è un dharma – ovvero una proprietà – connaturata alla mente; a questo punto il versetto più famoso di Patañjali, yogaś-citta-vr̥tti-nirodhaḥ, e in realtà tutto lo Yoga Sūtra,potrebbe assumere dei significati inaspettati….
Un sorriso,
P.
[1] Ovvero le
traduzioni di Raphael, Tainmi, Swami Vivekananda, Swami Satchidananda, Rama
Prasad.
[2] Vedi Nāṭyaśāstra, Cap. XXI.
[3] Vedi: Īśvarapratyabhijñāvimarśinī
65,
330.
[4] I cittabhūmi sono:
1.
Kṣipta, “confusione”;
2.
Mūdha, “ottusità;
3.
Vikṣipta,
“eccitazione;
4.
Ekāgra, “concentrazione”;
5.
Nirodha, “Controllo”.
Quando c'è un https://tantifilm.fyi film. È romantico..
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