Quando noi occidentali
entriamo in contatto con le filosofie e le tecniche psicofisiche orientali, facciamo
spesso l’errore di interpretare simboli, pratiche e usanze lontane dalla nostra
cultura, alla luce della tradizione cristiana.
Per il fatto
che indossano la tonaca, ad esempio, assimiliamo i Puntsok e i
Lobsang del buddhismo ai nostri monaci e preti, e i Lama ai vescovi
o ai cardinali.
Questa errata
identificazione ci porta a credere che abbiano gli stessi principi morali dei
nostri chierici e che debbano seguire le stesse linee di condotta, generando degli
equivoci con risvolti, a seconda dei diversi punti di vista, a volte comici a
volte drammatici.
Pur considerando
la varietà di scuole e lignaggi, e la contaminazione con la cultura
occidentale, non bisogna mai dimenticare che tra il buddhismo e il
cristianesimo c’è un abisso: il buddhismo, ad esempio, non è affatto una
religione e il Buddha storico, non credeva né all’immortalità dell’anima né quindi,
all’esistenza di una vita oltre la morte; ma la differenza più evidente,
secondo me, riguarda gli usi e i costumi sessuali.
Anche se
facciamo spesso finta di non saperlo ciò che oggi chiamiamo buddhismo tibetano nasce
come “gior wa” o yoga del sesso.
Inizialmente il
“gior wa”, lo “yoga tantrico” proveniente dall’India, fu
riservato a circoli ristretti di iniziati, ma ben presto si diffuse a macchia
d’olio in tutti i “monasteri” buddhisti generando già a partire dal X secolo,
una lunga serie di abusi.
Sulla base,
forse, di interpretazioni non corrette dell’Hevajratantra e del Kālacakratantra, i discepoli di alcuni maestri come il
kashmiro Guhyaprajña - detto il “Maestro Rosso” - cominciarono a
praticare, assieme allo yoga sessuale il “drol wa” (sgrol ba), lo
“yoga degli omicidi rituali”, trasformandosi ben presto in briganti che
assalivano nobili e mercanti, per depredarli e ucciderli[1].
Altri, privi
di ogni genere di conoscenza dell’argomento si fingevano iniziati al tantra
solo per approfittare sessualmente di giovani donne, ed altri ancora, come i “Vestiti
azzurri”, famosi organizzatori di festini a base di sesso e sostanze
psicotrope, vennero banditi dai sovrani dei regni himalayani a causa della loro
scarsa moralità.
Verso la metà
dell’XI secolo, per porre un freno alla proliferazione dei falsi maestri e alla
degenerazione degli insegnamenti tradizionali, Atiśa – un allievo
bengalese di Nāropā stabilitosi
nel regno di Guge - tentò di attuare una prima riforma del tantrismo
stabilendo che solo i laici potevano praticare i rituali sessuali e che nessun
monaco, suo discepolo, avrebbe più potuto celebrare le iniziazioni superiori
dei tantra (ovvero le iniziazioni sessuali).
Il risultato,
all’interno del movimento buddhista tibetano, fu una separazione netta tra le
scuole di ispirazione tantrica e quelle che, rifacendosi alla dottrina di Atiśa
chiamata “kadampa”, mettevano in rilievo l’importanza del “vinaya”[2] il
rigido codice morale delle scuole antiche. Nel XIV secolo Lama Tsong
Kapa ispirandosi agli insegnamenti di Atiśa fondò la setta “dei
berretti gialli “ (i Gelug, in tibetano dGe-lugs-pa, o “corrente
dei virtuosi”), con l’intento di riunire in un unico sistema di insegnamento i Sutra
– ovvero i testi didattici contenuti nel canone buddhista – e i Tantra,
ma essendo molte tecniche operative tantriche in aperto contrasto con le regole
di comportamento del vinaya – il codice morale -, stabilì che i
monaci non potevano partecipare ai riti sessuali né assumere “sostanze
intossicanti” e cominciò a proporre una interpretazione esclusivamente
“simbolica” degli allora diffusissimi rituali orgiastici.
Ciò non
significa che nelle altre sette e nella setta gelug in occasioni
particolari, come la cerimonia del kalacakra non si continui ancora oggi
a praticare riti sessuali e ad assumere sostanze intossicanti, ma in genere si
preferisce nasconderli agli occhi occidentali per non offendere la nostra
morale e non incrinare i rapporti con la Chiesa romana e con l’opinione
pubblica statunitense – gli USA sono i più importanti sostenitori e
finanziatori del governo tibetano in esilio - assai sensibile in materia di veri
o presunti abusi sessuali.
I principi etici
e morali e le idee in fatto di sessualità dei tibetani, dei nepalesi e in
genere degli appartenenti a tutte le culture tradizionali non riferibili alle
religioni monoteiste – Islam, cristianesimo ed ebraismo – sono assai diversi dai
nostri, e, anche se in alcuni casi ci sembra assurdo, non dobbiamo fare l’errore
di utilizzare i nostri metri di giudizio.
[1] Vedi Jean Naudou, Les bouddistes kasmiriens au Moyen
Age. Annales du Musée Guimet, Presses Universitaires de France, Paris 1968.
[2] Con il
termine “vinaya si indicano i codici morali delle antiche scuole (buddhismo del
Nikaya). Nel Canone tibetano è inserito il Mūlasarvāstivāda,
tradotto dal sanscrito nell’VIII
secolo dai monaci kashmiri Jinamitra, Vidyakaraprabha, Sarvajnadeva e
Dharmakara e dal traduttore Chokro Lui Gyalsen. Il Mūlasarvāstivāda è suddiviso in tredici volumi, contiene 253
precetti per i monaci e 364 per le monache.
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