Lo yoga ci dice che siamo angeli caduti. O dei annichiliti.
La liberazione, o la salvazione, della religione e della filosofia, è il ricordo
di sé, è l'attimo in cui si è abbagliati dal riflesso della luce
originaria che, da qualche parte, dentro di noi, continua a risplendere.
Si dicono le stesse cose in Oriente, come da noi, ma se il Dio creatore dei cristiani invia il proprio figlio a morire sulla croce per i peccati dell'umanità e a spargere la grazia come fosse un profumo di cui, in fin dei conti, non si può fare a meno di godere, quello degli indiani dorme il sonno dei giusti, sulle acque scure dell'oceano dell'inizio.
Non c'è nessun popolo eletto, per il sapere orientale. Nessun messia.
Ogni tanto scende sulla terra un Buddha, o un Avatar, ma il suo compito è di indicare la via, non di porgere la grazia: i maestri insegnano, non salvano.
La
consapevolezza della luce divina va conquistata. Come la spada; bisogna estrarla,
metallo grezzo, dalla madre terra, ripulirla e modellarla col potere del
fuoco e del vento, temprarla con l'acqua e lucidarla con pietre che solo il
maestro sa riconoscere e cogliere.
- “Tutti
gli esseri sono in me” - dice Kṛṣṇa nella Bhagavadgītā - “ma io non
sono in loro” -.
È questa l'intuizione, terribile e meravigliosa, dei filosofi indiani: Dio non alberga affatto dentro di noi e neppure è affacciato alla finestra dell'ultimo piano, pronto a correre giù per consolarci quando ci sbucciamo le ginocchia nei nostri giochi infantili.
Dio dorme. Dorme e sogna di noi; la nostra vita, gli incontri, e le città, gli oceani, l'universo intero sono solo un sogno sognato dal Dio che dorme.
La via della liberazione comincia da qui, da questa consapevolezza.
Ognuno di noi, anche nell'incubo peggiore, rivede un po' di se stesso. I fantasmi che paura e desiderio fanno muovere nei teatrini notturni ci guardano con i nostri occhi, ed è nostra la voce con cui ci blandiscono o spaventano.
Noi
siano il sogno sognato da un dio che dorme, ma ne condividiamo la natura
essenziale: il germe della creazione o tathāgatagarbha, per i buddisti.
Percepire il germe della creazione è
ciò che chiamano “conoscenza”.
Comprendere che brilla in noi allo stesso modo che in Śiva o in Buddha è la realizzazione.
Il sogno del dio è Femmina, gli indiani la chiamano Māyā o Śakti, e i taoisti, “Femmina misteriosa”. Māyā costruisce e arreda il Gran Teatro dell'illusione.
Poi riveste, con costumi ogni volta diversi, le marionette che Lei stessa ha costruito, e infonde loro l'energia per muoversi, amare, pensare.
Se la percezione della scintilla divina è conoscenza, i veli con cui viene avvolta è l'ignoranza.
Sono cinque i veli dell'essere umano:
- Il primo è il corpo di carne, la materia che i ṛṣi, gli antichi veggenti, mettevano al servizio della Dea Terra;
- Il secondo velo è l'energia vitale che fluisce come l'Acqua nei mari e nei fiumi.
- Il Terzo è la passione, il Fuoco;
- Il quarto è il potere della mente, la conoscenza, impalpabile come l'Aria.
- Infine c'è la volontà che tenta, invano, di delimitare lo Spazio infinito.
Nascondono la fiammella della creazione, i veli, una fiammella che è la Dea stessa, il suo corpo nudo.
La via della
liberazione, per lo yoga, è la Danza
della Dea.
Ogni volta
che ci mostra un brandello di verità facciamo un'esperienza che trasforma la mente,
il corpo, la vita.
Si chiama iniziazione, l'esperienza, o samādhi, e dopo l’iniziazione assisti, puoi assistere, ad eventi che sembrano magia e ti sembra, ti può sembrare, di aver acquisito poteri paranormali.
In realtà, come diceva il mio amico Ninad si applica l'etichetta di paranormale in ragione della spiegazione di un fenomeno, non del fenomeno in sé:
Se vedo un uomo che si butta in un burrone e plana come una rondine non credo ai miei occhi. Se l'uomo ha un deltaplano o un paracadute non ci vedo nulla di eccezionale.
La mente umana vive di legami e di relazioni.
Si passa più tempo a cercare di interpretare
la vita che a viverla, è una cosa che mi ha sempre colpito. Se improvvisamente un paralitico si alza in piedi e
comincia a camminare, l'attenzione di chi assiste si sposta, subito,
dall'evento alle ragioni che lo hanno determinato: un miracolo, una naturale
reazione dell'organismo, l’effetto ritardato di un farmaco oppure un tentativo
di truffa.
Si discuterà fino a
formulare una qualche ipotesi che i più riterranno soddisfacente.
Il nesso di causalità, niyati in sanscrito, che corrisponde al corpo doi carne e all'elemento Terra, è il primo velo di Māyā a dover essere sollevato.
Sollevare il velo della Dea è un'immagine poetica. Viene da pensare ad una donna, eternamente giovane e bella, vestita di seta leggera. Il samādhi, come un soffio di vento o un tocco lieve della mano, le scopre un seno o una coscia tornita, ubriacando di Bellezza e desiderio la mente dello yogin. Poetico, dicevo, ma impreciso: in sanscrito le cinque limitazioni non sono propriamente veli, si chiamano kañcuka, che vuol dire Corazza.
La Dea, l'infinita energia creatrice dell'universo, intesse con i fili colorati della Luce, del Silenzio e del Vuoto, cinque armature, i kañcuka. Cinque come i poteri della divinità secondo lo yoga.
Se la divinità è
onnipresente (vyāpakatva), onnisciente
(sarvajñatva), priva di desideri (pūrṇatva), eterna (nityatva),
onnipotente (sarvakartṛtva) l'essere
umano sarà limitato dalle dimensioni (kalā = atomo), dalla conoscenza imperfetta (vidyā), dalla passione (rāga), dal tempo che scorre (kāla)
e dalla necessità (niyati = principio di causalità).
La pratica dello Yoga consiste nel prendere coscienza delle corazze indossate l'una sull'altra e dei tnodi (granthi) che le tengono assieme.
Sciogliere i fili e vedere le armature disfarsi ad una ad una genera stupore, ma anche dolore.
Ogni filo è una faccia
antica o la promessa di un sorriso.
Al dissolversi dei kañcuka speranze e ricordi scivolano via
come rena di sogno. Milarepa, il grande yogin tibetano, dopo aver disciolto il
nodo del ventre, cominciò a volare, come le aquile o le anatre selvatiche.
Così, almeno, si racconta.
Io no, dopo cinquanta anni di pratica, di ricerca e di insegnamento dello yoga non ho ancora imparato a volare.
In compenso sono a riuscito a tracciare la mia linea di confine tra il prima e il dopo, ed ho scoperto che sciogliere i veli della Dea vuol dire anche togliersi le maschere che il buon senso e ciò che chiamiamo cultura ci incollano sulla faccia.
Ci sono le nostre piccole e grandi meschinità dietro quelle maschere. E rabbia, paura, invidia. Fa male assai togliersi le maschere, ma dopo, una volta tracciato il confine, attraverso il dolore si fanno strada la tenerezza e la compassione per se stessi.
Sembra
strano, ma se impari ad amare te stesso l’angoscia che ti accompagna da sempre
piano piano svanisce e la naturale ansia di incompiutezza dell’essere umano si
scioglie, come in una danza leggera.
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