Materiale didattico del Corso di Formazione Yoga Citra - Settembre 2022
1. Meditazione sul Tat Tvam Asi
Tat Tvam Asi è un mahāvākya (महावाक्य), o “grande detto”; i mahāvākya sono aforismi tratti dalle scritture, che postulano
l'identità essenziale tra l'individuo e l'Assoluto.
Tradizionalmente
si riconoscono quattro mahāvākya:
1. “prajñānam
brahma”, “la coscienza/conoscenza è il Brahman”, tratto dall'Aitareya
Upaniṣad del Ṛg Veda;
2. “ayam ātmā brahma”,
“il Sé è il Brahman” tratto dalla Māṇḍūkya Upaniṣad
dell'Atharva Veda;
3. “tat tvam asi”, “tu
sei quello”, tratto dalla Chāndogya Upaniṣad
del Sama Veda;
4.
“aham
brahmāsmi”, “io sono il Brahman, tratto dalla Bṛhadāraṇyaka
Upaniṣad dello Śukla Yajur Veda.
Ogni
sentenza è suddivisa in tre parti o पदार्थ padārtha,
che significa sostanza, oggetto del pensiero, ed innanzitutto il praticante
dovrà praticare “l’investigazione” - विचार vicāra, che
letteralmente significa idea, pensiero - disputa su ciascuna di esse:
-
La prima
parte è detta tvam padartha e riguarda l'elemento soggettivo,
non universale del mahāvākya. La riflessione su di essa sarà
quindi tvam padartha vicāra;
-
La seconda
parte è detta tat padartha e riguarda l'elemento oggettivo,
universale.
-
La terza
parte è detta aikya padartha ed è l'elemento che lega, unisce,
mette in identità universale ed individuale (copula).
L'investigazione,
che parte dall'esame (vicāra) dei singoli elementi della sentenza conduce
alla conoscenza, Jñāna, intesa come ‹‹attività che implica la trasformazione›› (vedi: Śaṅkara – Upadeśasāhasrī; - ed. Aśram Vidyā – parte prima, capitolo II, versetto
77).
Nella “grande sentenza” tat tvam asi il tvam, tu, sarà
un qualcosa legato all'individualità (il jīva inteso come anima
individuale per esempio) mentre il tat sarà un qualcosa di legato
all'universalità, il “vero Sé” e quindi" il brahman.
Questo mettere in relazione l’elemento individuale con l’universale (tvam
con tat) potremmo definirlo “conoscenza relativa”, mentre la conoscenza
assoluta, Jñāna, sarà il “realizzare”
e lo “stabilizzare” l’identità tra soggettivo e oggettivo, individuale e universale.
Tvam/tu è inteso come il jīva con le sue “sovrapposizioni”, ovvero
con i contenuti psichici ciò che impediscono di percepire che la propria natura
è quella del Brahman.
Una volta sciolti i contenuti psichici, attraverso il processo definito samādhi
si realizzerà l’identità tra individuale e universale, tra jīva e para
jīva
- il jīva supremo definito anche, nell’advaita vedānta, Ātman
o Īśvara - che a sua volta va inteso come “determinazione prima” ovvero
come aspetto percepibile del Brahman, per realizzare il quale occorrerà, per
così dire, continuare l’indagine, fino ad un ulteriore stato di coscienza.
La conoscenza come dice Śaṅkarācārya è ‹‹attività
che implica la trasformazione›› e la trasformazione (della mente) muta la
comprensione della sentenza in esame, il mahāvākya, fino a giungere alla
conoscenza assoluta o identità con il Brahman.
La percezione dipende il punto di vista del percipiente, così come la conoscenza
dipende dal punto di vista di colui che conosce.
in altre parole, la “grande sentenza” tat tvam asi assumerà
significati diversi a seconda del livello del praticante; i livelli
corrispondono ai quattro stati di coscienza del praticante ovvero:
1.
Stato di veglia, viśva (विश्व) che letteralmente significa “universo materiale”;
2.
Stato di sogno, taijasa (तैजस) o taijasakṣetra che letteralmente significa “terra luminosa”;
3.
Stato di sonno profondo, prājñā (प्राज्ञा), riferibile prajña (प्रज्ञ), letteralmente “saggezza” o “colui che è saggio”;
4.
Quarto stato, turīya (तुरीय), parola di etimologia incerta,
traducibile con “quarto”.
Esiste anche un “quinto stato” detto turīyātīta (तुरीयातीत), che rappresenta ciò che è oltre la manifestazione e quindi la possibilità
di percezione e comprensione, ragion per cui non rientra nell’ambito dell’investigazione
(vicāra).
I quattro
stati di coscienza corrispondono a quattro diverse condizioni o “stati
costitutivi della materia (vedi Patañjali, yoga
sūtra II,19):
1. viśeṣa (विशेष), che significa “distinto”, “peculiare”, “non
differenziato”;
2.
aviśeṣā (अविशेषा), che significa “non distinto”,
“non differenziato”;
3.
liṅga (लिङ्ग), letteralmente
“pene”, che qui significa “segno”, “marchio”;
4. aliṅga (अलिङ्ग), letteralmente “non pene”,
“non segno”, che qui indica “ciò che non è il segno di niente e non può
dissolversi in niente.
Per chiarire il significato di
viśeṣa, aviśeṣā e liṅga possiamo fare
l’esempio della procreazione e del sesso del nascituro:
-
Quando
si formano i genitali e quindi si può discriminare se il nascituro è maschio e
femmina siamo allo stato costitutivo detto viśeṣa;
-
Quando il
feto si sta formando, ma non è ancora possibile distinguere se è maschio o
femmina siamo allo stato costitutivo detto aviśeṣā;
-
Quando
l’uomo eiacula durante l’atto d’amore e nelle fasi precedenti all’atto, nello
sperma sono presenti le caratteristiche genetiche del padre e nell’ovulo le
caratteristiche genetiche della madre che potrebbero trasmettersi ad una nuova
creatura: sia gli spermatozoi sia gli ovociti sono, tra virgolette, “liṅga”, in quanto sono “lo stampo”, “il marchio” di una possibile
“determinazione” (il futuro bambino/a).
Per ciò che riguarda lo stato detto aliṅga, supponendo che il padre degli esempi precedenti sia la
materia, la madre l’energia e il nascituro la manifestazione percepibile, possiamo
pensare all’istante che precede il Big Bang, istante in cui non esistono
ancora né la manifestazione né un testimone che possa percepire la
manifestazione.
Stabilito cosa siano gli stati di coscienza e gli
stati costitutivi della manifestazione ad essi collegati, possiamo affrontare
la riflessione sul tat tvam asi, tenendo presente che si tratta di un
viaggio a ritroso verso le origini della manifestazione realizzato in virtù
della trasformazione della mente e, quindi, della percezione della realtà.
Affinchè la riflessione sul tat tvam asi sia operativa –
conduca cioè ad una effettiva trasformazione della mente - si dice sia necessaria
la presenza di un istruttore. La riflessione e la conseguente realizzazione
secondo gli insegnamenti dello advaita vedānta, non possono nascere se
non tramite il dialogo tra maestro e discepolo o tra istruttore e aspirante
yogi, perché se è vero che il dialogo avviene tramite parole, si tratterebbe di
parole che si rivolgono non alla mente, ma direttamente alla coscienza
dell'allievo o del discepolo, per cui la parola del maestro nell'ambito di un
dialogo d'istruzione, va intesa come sovrapposizione di un “suono-radice”,
un bīja mantra non percepibile con i sensi o la mente
ordinari.
Spesso nei dialoghi di istruzione dello advaita vedānta viene detto
che non è l'istruttore a parlare ma la Tradizione. Questo significa che l'insegnamento
dell’advaita vedānta intende rivolgersi non alla mente dell’allievo, ma
ad un qualcosa di più profondo che va oltre la coscienza dell’individualità.
Ciò non toglie che l’insegnamento non sia anche acquisito, ad un altro
livello, in un altro modo e con altri "effetti", dalla mente, ma si
tratta di una conoscenza relativa, che non conduce alla trasformazione
necessaria per realizzare l’identità con l’Assoluto.
2. Tarka
Facciamo adesso un esempio di “riflessione” secondo lo advaita vedānta, tenendo
conto che la realizzazione dipende dalle qualificazioni dell’allievo e
dell’insegnante e che, quindi, l’applicazione di un metodo di interpretazione
logica non conduce automaticamente alla trasformazione della mente:
Tat tvam asi, tu sei quello, ha un significato esplicito ed uno implicito. Per
permettere di cogliere le implicazioni di un'affermazione, si utilizza una
tecnica ben definita che si può definire "logica – tarka - vedānta”.
Nella logica vedānta vi sono tre (chiamiamole così) tecniche
interpretative, in grado di rivelare le implicazioni, ovvero i significati
impliciti o nascosti:
1.
jahal (jahati) laksanā
2.
ajahal (ajahati) laksanā
3.
jahad ajahal (bhāga) laksanā.
Jahal laksanā è definita implicazione rimuovente. Facciamo un esempio:
Tizio dice a Caio che la
città di Livorno è sul mare. Ovviamente il senso letterale di questa frase sarà
“rimosso” dal senso implicito in quanto è difficile credere che Livorno
sia costruita direttamente sulle acque. Si presume quindi che siano
implicite le parole “costruita sulla riva del mare”.
Ascoltando quindi la
frase “la città di Livorno è sul mare” il senso esplicito, diretto
sarà “rimosso” e sostituito dal significato indiretto o implicito. Un
significato che, sebbene non espresso, sarà indiscutibile: “Livorno è una città
costruita sulla riva del mare”.
Ajahal- laksanā è definita implicazione non rimuovente. Questo è il caso
in cui il significato letterale è, senza il significato implicito, incompleto
e/o totalmente incomprensibile. Facciamo qui il medesimo esempio citato
da Sadānanda nel Vedāntasara, uno dei testi fondamentali dello advaita
vedānta:
Il rosso corre più veloce
degli altri.
Rosso è una qualità, ed è
quindi ovvio che ci si sta riferendo forse ad un cavallo rosso, forse ad
un corridore rosso per capelli o abiti, ma se non si ha cognizione
dell’evento descritto, se non sappiamo che si tratta di una corsa tra cavalli,
tra uomini, o della fuga precipitosa di un gruppo di soldati sconfitti, o altro
la frase sarà assolutamente incomprensibile.
Bhāga-laksanā è l'implicazione rimuovente-non rimuovente. Prendiamo la frase "Tu
sei quel tizio che cinque anni fa praticava yoga nel parco”:
“Tu sei quel tizio…” significa
che chi sta parlando riconosce in te, ora, lo stesso tizio di cinque anni fa. La frase in sé
sarebbe contraddittoria in quanto in apparenza “tu” e “quel tizio” sono
due oggetti (di conoscenza) diversi, ma il significato implicito rimuove la
contraddizione, rivelando che non c’è differenza tra il tizio di cinque
anni fa ed il “tu” di oggi.
Chi parla riconosce in te lo
stesso tizio al di là dell’indicazione temporale e magari dei diversi
vestiti che indossi e del diverso taglio di capelli. Si tratta quindi di un
riconoscimento.
Questa serie di processi mentali è indispensabile nella pratica dei mahāvākya,
come tat tvam asi: "tu/tvam" ha a che
vedere con il piano di identificazione soggettivo e "quello/tat"
ha a che vedere il piano universale
Se “tu”, ad esempio, è il jīva e “quello” è
l’ātman, tu sarà immediato ("tu" sei
ineluttabilmente tu) mentre quello è "non immediato”.
Se applichiamo a tat tvam asi lo stesso procedimento che abbiamo
applicato della frase “Tu sei quel tizio che cinque anni fa praticava yoga
nel parco”, si avrà la rimozione delle apparenti contraddizioni: tu e
il tizio di cinque anni fa siete apparentemente diversi, ma,
eliminando le sovrapposizioni, ovvero la diversità di tempo (oggi e cinque anni
fa) e luogo (qui e nel parco) non rimane altro che “tizio”.
Allo stesso modo il “tu/acqua" per fare un esempio
“tradizionale”, contenuto in un vaso si identificherà con "l'acqua del
lago" (quello) in cui il vaso galleggia.
Nel caso dell'acqua contenuta nel vaso fatto galleggiare nel lago, l'acqua
contenuta sarà tvam padhartha e l'acqua del lago sarà tat
padhartha, così come nel caso del “Tizio che praticava yoga…” avremo tu che
nell'interpretazione vedantica viene definito tvam padhartha e quel
tizio... verrà definito tat padhartha. Il legame, la
copula, il ponte trai due (aikya padartha), ovvero il verbo essere
(tu sei quel…) rappresenta il riconoscimento, "effetto"dal
processo di trasformazione della mente innescato dalle tecniche di
interpretazione. Tat tvam asi, tu sei quello.
3. Aham brahmāsmi
Veniamo adesso alla grande sentenza aham brahmàsmi tratta dalla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (I, IV; 10); come si è
accennato i mahāvākya non sono mantra come gli altri, nel
senso che non vanno ripetuti 108 o diecimila volte, ma devono essere compresi e
integrati grazie alla “diretta esperienza intuitiva.
Si legge nella Br. Up. I, IV, 10:
Questo essere era solo Brahman, e conosceva sé stesso
come aham
brahmàsmi, io sono brahman; divenne così ogni cosa, l’universo intero. Coloro
tra gli dèi che riconobbero in tal modo se stessi divennero il brahman e così
fu per i veggenti, e così fu per gli uomini. Il saggio Vāmadeva affermò: Una volta fui Manu, e fui il Sole; così
accade che chi realizza aham brahmàsmi diventa egli stesso l’universo.
Nemmeno gli dèi potrebbero impedirlo, perché egli diviene il Sé, anche degli
dèi. Chi venera un dio diverso da sé e dice “il dio è una cosa diversa da me” è
come un animale utile agli dei; così come molti animali servono gli uomini,
così anche gli uomini servono gli dei […] per questo agli dei non piace l’insegnamento
dell’aham brahmàsmi.
Qualche
versetto prima la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad afferma che “io”, aham, è il vero nome
dell’Essere, Br. Up. I, IV,
1:
In
origine questo universo era Virāj [colui che brilla]. Egli comprese di essere
solo sé stesso e dunque disse “io sono”. Da allora il suo nome fu “io” [aham].
Per quello da allora quando si chiede a qualcuno chi sia egli risponde “io
sono” [so’ham] poi aggiunge il proprio nome. Poiché Virāj era prima di tutto
questo universo […] bruciò col fuoco ogni male. Egli è chiamato Puruṣa. Colui che sa questo [colui che
sa che Virāj è Puruṣa]
brucia chiunque voglia ostacolarlo.
Nel
versetto successivo Br. Up. I, IV, 2, l’Essere sperimenta la paura:
Egli
ebbe paura; è per questo che ancora oggi chiunque sia solo ha paura. Pensò: “se
non esiste nessuno all’infuori di me di cosa dovrei avere paura?”, e la paura
passò perché la paura può provenire solo da altro da sé
Ma ecco che, dal
superamento della paura, nasce l’infelicità, e per superare l’infelicità che
nasce dalla solitudine, l’essere si divide in femmina e maschio e crea tutte le
creature, Br. Up. I, IV, 3-5:
Egli
non era felice, è per questo che ancora oggi gli uomini sono infelici quando
sono soli. Egli desiderava una compagna, allora [assunse la forma] di un uomo e
di una donna abbracciati, e divise il suo corpo in due parti. Così nacquero lo
sposo e la sposa. Per questo Yājñavalkya diceva che questo corpo è la metà di
un intero, come la metà di un frutto. Così il vuoto fu riempito dalla sposa con
cui l’essere si unì e [dall’unione] nacquero gli uomini.
La
sposa pensò: “come può unirsi a me se è mio padre? Devo nascondermi”. La sposa
si mutò allora in una vacca, ma lui divenne un toro; si tramutò in cavalla e
lui si fece stallone; divenne asina e lui somaro […]. Così l’essere creò tutto
ciò che esiste sotto forma di coppia.
Virāj
comprese allora di essere la creazione poiché egli stesso aveva creato ogni
cosa e quindi chiamò sé stesso “creazione”. Colui che conosce questo diviene un
creatore nella creazione.
La creazione
delle forme animali è ciò che porta alla distinzione (viśeṣa) tra le forme
della manifestazione (cavalla, asina ecc.) che conduce alla prima possibilità
di indagine, vitarka, esattamente come nella fase precedente, in cui non
c’è distinzione tra le forme della manifestazione, possiamo riconoscere la
condizione definita aviśeṣa; nella paura
che nasce dalla consapevolezza di essere soli nell’universo possiamo
riconoscere la condizione detta liṅga e nello stato
precedente la condizione detta aliṅga.
Il
riconoscimento di queste condizioni, nel viaggio a ritroso del praticante di Jñāna
yoga, viene prodotto da una serie di samādhi definiti da Patañjali:
1.
savitarka (सवितर्क);
2.
savicāra (सविचार);
3.
sānanda (सानन्द);
4.
sāsmita (सास्मित).
Corrispondenti
alla comprensione dei quattro costitutivi della manifestazione, nell’ordine:
1. viśeṣa (विशेष), “differenziato;
2. aviśeṣā (अविशेषा), “non differenziato”;
3. liṅga (लिङ्ग), “segno”;
4. aliṅga (अलिङ्ग), “ciò che non è il segno di
niente e non può dissolversi in niente.
Corrispondenti
a loro volta ai quattro stati di coscienza esperibili dall’essere umano:
1.
Stato di veglia, viśva (विश्व);
2.
Stato di sogno, taijasa (तैजस);
3.
Stato di sonno profondo, prājñā (प्राज्ञा);
4.
Quarto stato, turīya (तुरीय).
Vediamo
adesso cosa viene insegnato nel Vedāntasara di Sadānanda a proposito della grande
sentenza ”aham
brahmāsmi”:
171.
Essendo stato spiegato dal guru in precedenza il significato di tat e tvam attraverso
la rimozione delle sovrapposizioni, ed essendo stato istruito il discepolo sul
significato della sentenza tat tvam asi insorge in lui quello stato di
coscienza in cui realizza aham brahmāsmi, lo stato di assoluta unità privo di
dualità […].
Aham
brahmāsmi
è quindi una condizione che deve insorgere naturalmente nell’allievo dopo l’istruzione
del guru sul tat tvam asi. Il dialogo tra insegnante e allievo provoca
nella mente di quest’ultimo una serie di trasformazioni fino a farlo giungere
nella condizione in cui non vi è possibilità di ulteriori modificazioni.
Non
è semplice da comprendere, ma è forse possibile intuire il vero significato di
questo insegnamento attraverso l’esempio, apparentemente sciocco, del cinema:
-
ciò
che osserviamo e che suscita emozioni è una serie di immagini colorate proiettate
su uno schermo bianco;
-
lo
spettatore è il testimone, sākṣin (साक्षिन्), che, se il
film è ben fatto, si immedesima completamente in uno dei personaggi della
storia fino a dimenticarsi di sé;
-
quando
finisce il film si accendono le luci e rimane lo schermo bianco.
Tutto
ciò che accade nella sala e nella storia è una realtà “relativa”: a seconda del
posto che occupa, del suo sesso, del suo stato d’animo della sua cultura e della
religione, ad esempio, lo spettatore godrà dello spettacolo e comprenderà la
storia in maniera diversa;
per
ciò che riguarda il film si può affermare che a seconda del montaggio dei vari
fotogrammi e sequenze, del doppiaggio o della musica di accompagnamento, il
film potrebbe mutare significato ed avere un impatto diverso sullo spettatore.
In
nessun modo potremmo affermare che lo spettatore e il film proiettato siano frutto
di illusione perché alla base ci sono comunque l’essere umano e il frutto della
sua opera, ma si tratta appunto di realtà relative in quanto soggette a
possibili e reciproche modificazioni:
Quando
si accendono le luci e si spegne il proiettore il mio umore sarà modificato in
base al film; al tempo stesso il mio eventuale apprezzamento contribuirà a
decretare il successo o l’insuccesso del film e di coloro che hanno contribuito
a realizzarlo.
L’unica
cosa che non verrà modificata né dalla storia raccontata, né dalla qualità
delle immagini, né dal giudizio del pubblico sarà il telone bianco, che rimarrà
identico a sé stesso.
In
un certo senso quindi il telone è una realtà “assoluta”, mentre il film e lo
spettatore sono una realtà “relativa”.
Quando
il film finisce e resta solo lo schermo bianco lo spettatore comprende che si
identificato con immagini proiettate su uno schermo bianco.
Queste
immagini proiettate sono come le sovrapposizioni che impediscono all’essere
umano di realizzare l’identità con il sé.
Se
anziché identificarmi con le immagini proiettate riuscissi ad identificarmi con
lo schermo bianco potrei avere un’idea, vaga ma non errata, del significato della
sentenza Aham brahmāsmi.
le cose più interessanti e sorprendenti accadono https://cbo01.net/fantasy/ nel cinema e nei generi comici
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