“Traccia un confine tra il prima
e il dopo”.
Takuan Soho, “Sogni”, Luni Editrice.
Lo yoga
è la pratica del samādhi.
Il samādhi o l’enstasi
come lo chiamava Mircea Eliade, è il sentirsi
uno con l'universo e il percepire come tutti gli eventi si pieghino al volere
di una potenza sconosciuta che ti sta indicando una strada, “quella” strada. Samādhi è l’esperienza straordinaria che confonde e trasforma
la mente. A volte è il risultato di
esercizi, di pratiche ascetiche o dell’assunzione di droghe. Altre accade, così
senza motivo.
Lo yoga è un’amante gelosa, vuole tutto per sé, non sopporta ricordi e rimpianti e condanna all’oblio chi cerca di portarsi dietro i fantasmi del passato. E invece occorre ricordarsi di sé in ogni istante, in ogni momento. La consuetudine, la tendenza ad utilizzare strutture mentali ormai logore dopo l'esperienza del samādhi, porta a dimenticare. C'è una luce particolare, suoni e sapori che paiono indimenticabili. E poi, d'un tratto, ne rimane solo un vago ricordo. Come foto ingiallite in cui non riesci a trovare il sorriso e lo sguardo di amanti lontane. Rimane la nostalgia. A volte neppure quella. Il problema è che l’io di prima, con i suoi sogni, speranze e memoria, non c’è più e finisci per trovarti, spaesato, in una terra di mezzo, incapace sia di rivivere l’esperienza sia di godere del quotidiano. Occorre coraggio per tracciare il confine.
- “Io sono il mio passato,
la mia memoria, la mia infanzia” - dice il piccolo ego – “Come potrei sentirmi intero senza ricordi?” - È per questo, per tacitare i piagnucolii
dell’ego che occorre tracciare il confine tra il prima e il dopo.
Scrivi le esperienze che si accompagnano alla pratica, anche quelle che ti sembrano più sciocche. Scrivi i sogni. Raccogli gli oggetti che attirano anche per un istante la tua attenzione. Se si tratta di un qualcosa di importante, qualcosa che modifica la mente e la percezione del mondo, una volta che la sabbia dell'oblio, ti riporterà, giustamente, con i piedi per terra, la parola scritta, il sasso raccolto in quel prato, il disegno che esprime il sentire confuso di un sogno inspiegabile, saranno le chiavi per ricordarti di te.
È un arte
lo yoga, l’arte di morire da vivi. Non è bello da dirsi, lo so. Io sono morto, più volte e più volte ho
dimenticato, cercando di aggrapparmi ad una vita che non esisteva più. Quando
le energie della creazione, liberate dal samādhi, invadono quella che, sino ad un attimo
prima, chiamavi realtà non hai scelta: o ti arrendi o assisterai, attonito alla
distruzione di tutto ciò che ami. Io l’ho imparato a mie spese.
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