Il termine lakṣya (लक्ष्य) significa letteralmente “ciò che deve essere visto o notato”, “ciò che deve essere preso di mira”. Nello haṭḥayoga indica sia tecniche di visualizzazione -ovvero il “disegnare nella mente ”oggetti, simboli e colori – sia la visione di effetti luminosi e forme che accompagna la pratica della concentrazione sugli ādhāra, 16 particolari marma sui quali lo yogi porta la mente durante l'apnea, in una pratica definita, in testi come Yoga Yājñavalkya, la Vasiṣṭhasaṃhitā e il Vimānārcanākalpa, Pratyāhāra.
- Antarlakṣya: "ciò che si deve
vedere dentro", che si potrebbe intendere come una visualizzazione di
oggetti di percezione dentro il corpo, ovvero organi interni, processi
fisiologici ecc.
- Bahirlakṣya: "ciò che si deve
vedere fuori", che si potrebbe intendere come una visualizzazione di
oggetti esterni al corpo;
- Madhyamalakṣya: "visualizzazione media o neutra", né interna
né esterna.
Una descrizione accurata delle
tre modalità di visualizzazione si trova nella Advayatāraka Upaniṣad, un
testo tardo (probabilmente XVII-XVIII secolo) che riprende ampi stralci di un
altro testo attribuito a Gorakṣa, lo Āmanaska Yoga[2]..
Nella Advayatāraka Upaniṣad la visualizzazione interiore (antarlakṣya)
riguarda la percezione di kuṇḍalinī śakti come un filo sottile e
luminosissimo che scorre all’interno di brahma nāḍī. La visione di kuṇḍalinī
si accompagna all’insorgere del suono interiore. Nella pratica si tappano le
orecchie con le dita o i palmi delle mani e lo sguardo viene diretto verso il
centro della fronte, dove il praticante visualizza un punto o un uovo di luce
blu.
La visualizzazione esterna – o
esteriore – (bahirlakṣya) consiste invece nell’osservare luci o forme di
colore giallo brillante, rosso sangue, blu o nero che appaiono agli angoli
dell’occhio, per terra o sopra la testa.
La pratica inizia con la meditazione
sui soffi vitali - vāyu (वायु) –
accompagnata dai bija mantra degli elementi, da una serie di mūdra
e dalla visualizzazione di simboli di vari colori.
La fase finale di bahirlakṣya
consiste nella contemplazione di una luce splendente sopra al sincipite.
La terza forma di visualizzazione, detta
madhyamalakṣya consiste infine nel lavoro sui vyomapañcaka , ovvero i “i cinque Spazi” o “le cinque stanze”.
[Da notare che la visualizzazione delle
luci o forme colorate realizzata durante la pratica di antarlakṣya e
bahirlakṣya corrisponde quasi perfettamente alla “realizzazione dei dieci
segni descritto nello Yoga di Nāropā[3], descritto nel Canone Buddhista Tibetano]
Le cinque stanze, chiamate ākāśa,
parākāśa, mahākāśa, tattvākāśa e sūryākāśa, vengono
descritte in Siddha Siddhānta Paddhati 2.30 in questo modo:
"Ākāśa è lo Spazio che viene visualizzato all’esterno [bāhya] - e
all’interno – [abhyantara] - uno spazio perfettamente immacolato [nirmala] -
senza forma [nirākāra].
Parākāśa è visualizzato come uno
spazio simile alla perfetta oscurità [andhakāra].
Mahākāśa è visualizzato come uno
spazio simile kālānala, il “Fuoco della Morte”.
Tattvākāśa è visualizzato come lo Spazio
la cui forma è la realtà, intesa come ciò che è manifestato.
Sūryākāśa è visualizzato, sia
all’esterno sia all’interno, come la luce splendente di dieci milioni di sóli.
Contemplando i cinque (Ākāśa, Parākāśa, Mahākāśa, Tattvākāśa, Suryākāśa) si realizza l’identità con lo Spazio.”
La pratica dei vyoma pañcaka consiste quindi in cinque diverse visualizzazioni e/o pratiche meditative il cui fine è l’identificazione del praticante con lo Spazio. Questa identificazione secondo Śrīkaṇṭha[4] – un maestro Nāth la datazione delle cui opere appare incerta[5] - consisterebbe nel dissolversi dello Spazio interno o spazio della memoria (cittākāśa) sede della coscienza individuale, con la Spazio esterno (genericamente mahākāśa), in unico principio definito cidākāśa, spazio della coscienza universale detto anche parāprakṛti o cit śakti.Da notare che i
“cinque Spazi” - ākāśa, Spazio; parākāśa[6], Spazio supremo; mahākāśa, grande Spazio; tattvākāśa, Spazio della Realtà, suryākāśa, Spazio del Sole - potrebbero
essere messi in relazione anche con i cinque maṇḍala mistici, i cosiddetti Pañcakra, citati nel Kubjikāmatatantra,
un altro testo attribuito a Gorakṣa[7].
[1] “ṣaṭcakraṃ
ṣoḍaśādhāraṃ dvilakṣyaṃ vyomapañcakam / svadehe
ye na jānanti kathaṃ siddhyanti yogiaḥ //12//”
[3]
Vedi: NOTE
FINALI;La
Realizzazione dei Dieci Segni nel Kālacakra.
[4] Vedi: Jonathan Duquette, “Śrīkaṇṭha and the Brahmamīmāṃsābhāṣya”
in “Defending God in Sixteenth-Century India: The Śaiva Oeuvre of Appaya Dīkṣita”.
Oxford
Scholarship Online: February 2021. ISBN-13: 9780198870616
[5] Secondo lo Śābaratantra (Sabaratantra) uno dei primi
testi Nāth, Śrīkaṇṭha farebbe parte del gruppo dodici siddha, che avrebbero
dato vita al lignaggio Nāth, e sarebbe vissuto quindi prima del X secolo.Ognuno
di essi avrebbe avuto un solo allievo, Questa la lista completa dei primi dodici
maestri (1) e dei primi dodici allievi (2):
1.
Ādinatha, Anadi, Kala, Atikalaka,
Karala, Vikarala, Mahakala, Kalabhairavanātha, Baṭuka, Bhutanatha, Viranātha,
Srikaṇṭha.
2.
Nagarjuna, Jaḍabharata,
Hariscandra, Satyanatha, Bhimanātha, Gorakṣa, Carpata, Avadia, Vairagya,
Kanthadharin, Jalandhara, Malayarjuna.
[6]
Secondo la Ṣaṭsāhasrasaṃhitā il termine Parākāśa indica lo spazio
privo di oggetti di conoscenza, ovvero la Realtà non manifestata. Per il Manthānabhairavatantra
è una descrizione della dea suprema.
[7]
Vedi: NOTE FINALI; I Cakra dei Nath.
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