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SHIVA E L'AMORE CHE NULLA PRETENDE

 


L’Amore che Nulla Pretende

 


Sono tante le chiavi di interpretazione del mito di Satī. Di certo vi si può leggere un conflitto tra il mondo strutturato da una mente, tra virgolette, “maschile” e l’universo del sentire e delle emozioni che, probabilmente sbagliando, definiamo “femminile”.

Satī, dea “bambina”, viene a trovarsi al centro di un conflitto, per lei assurdo, tra il Padre e lo Sposo. Daka, figlio di Brahmā vuole affermare la sua superiorità nei confronti del genero. Śiva, dal canto suo, non ha nessuna intenzione di scendere a patti con il suocero, né di farsi umiliare davanti all’assemblea delle divinità. Di fronte al mancato invito reagisce con orgoglioso distacco e, quando la moglie gli comunica la sua decisione di partecipare comunque, con o senza di lui, alla cerimonia organizzata dal padre, tira fuori l’arma della violenza passiva:

“Vai pure, fa ciò che vuoi, ma poi non venirmi a raccontare che non te l’avevo detto!

Quante volte noi uomini abbiamo usato frasi simili con le nostre compagne o le nostre figlie! Ci pare una affermazione logica, quasi nobile, e ci inventiamo che i nostri fini siano educativi, ma si tratta solo del tentativo di asserire la nostra presunta superiorità. Un gioco di potere che ha l’unico scopo di creare una gerarchia all’interno della coppia, o della comunità.

 

Śiva dovrebbe proteggere la sua Donna e la “Bolla”, magica, che nasce dall’incontro delle due polarità, maschile e femminile, ma preferisce cedere all’orgoglio, quasi che la cosa più importante sia il dimostrare di aver ragione. Il Naarāja è vittima della “dinamica dell’Oblio”, uno dei peggiori nemici dello yogin.

 

 Nella mia esperienza ricordo di aver sentito, più volte, la mia vita come fosse scissa, in maniera quasi schizofrenica, tra sogno e veglia, e ricordo di aver vissuto la creazione di un ponte tra le due diverse sponde, con stati psichici e fisici di cui solo dopo avrei letto sui libri.

 

Istanti di assoluta bellezza, in cui, per magia, gesti divini e danze sconosciute scuotono il corpo e si sa senza sapere. Lo Yoga è il tentativo di integrare quelli stati nella vita di tutti i giorni e di rendere fermo e stabile il “sapore” di quegli istanti. L'esperienza della “Bellezza” è effimera, come la goccia di rugiada che si fa perla al sole del mattino, e insolita, come il fiore che nasce sullo scoglio. La via per la felicità, insegna lo Yoga, passa attraverso l’integrazione della Bellezza nella vita di tutti giorni.

 

A volte, in certi stati tipici dello Yoga, ci si sente scemi. Non si ha voglia né di andare avanti né di tornare a terra. La foglia che danza nel vento o l'onda del mare ci rapiscono e ci si fa foglia e onda. Ci si sente soli, a volte, ma poi accade, per magia, che un altro (altra) si trovi con noi nell'attimo in cui i due mondi si uniscono e le due luci si fondono nei colori antichi del crepuscolo.

E allora… “i suoi occhi sono i miei occhi, il suo cuore è la mia musica, io sono Lei”.

Se si vive sul ponte di prima dell'inizio, a metà strada tra il sogno e la veglia, senza la gioia dell'Incontro che senso avrebbe continuare a parlare, discutere, studiare, insegnare…vivere? La bellezza pur effimera e insolita, è una modalità che corpo e mente possono imparare, ma talvolta i momenti di grazia, l'unione dei cuori, il darsi senza nulla pretendere, vengono presi, assorbiti e dimenticati. L'oblio è come la neve, stempera suoni e colori.

 

Nella storia dello Yajña di Daka, il comportamento di Śiva è stato in apparenza, ineccepibile: non è stato invitato alla cerimonia, e quindi non si presenta. La sua sposa vuole andare comunque – “cavolo! Non ci vuole mica il permesso scritto per far visita ai propri genitori e alle proprie sorelle!” - e lui la asseconda.

Ma di fatto, rifiutandosi di proteggere la sua Sposa, si è lasciato annebbiare dall’oblio, ponendo orgoglio e dignità al di sopra della Bellezza e della Gioia dell’Incontro.

Satī da parte sua, non è riuscita ad integrare il suo ruolo di compagna del Naarāja, dio dell’Oltre, con il mondo delle forme e delle regole. Non ha compreso che la Bolla, quella straordinaria mutazione di tempo e spazio che accompagna l’accordo di due “polarità pure” va alimentata incessantemente e deve essere, anch’essa, protetta. Ogni bambina è la Dea, e nasce intera, ma le fanno credere di essere scissa, divisa, incompleta. Finisce per perdere la consapevolezza di ciò che è realmente: “ricettività assoluta”, che non significa passività ma Potenza Infinita. E deve re-imparare. Passata la fase dell'infanzia la Dea dimentica di Sé e vive nell'incompletezza: da un lato ha il ricordo e la nostalgia del Cielo, dall'altro il desiderio di stabilità nel mondo grossolano. Un mondo, quello grossolano, che non è la Natura "Naturata", non è il “Suo” regno, ma è un feticcio, un fantoccio nel quale la Legge dell'Eros, la Pura Estetica che coincide con l’Etica Pura, è sostituita dalla legge dell'uomo, dalle consuetudini ed ipocrisie di ciò che chiamiamo Società. La Donna è maestra, ma deve essere risvegliata al suo ruolo. - “Sei metallo e fragile conchiglia” - dice la società alla Donna maestra insegnandole ad essere madre e figlia, forte per l'uomo e debole con l'uomo - “Sono Terra e Acqua e Fuoco e Aria. Sono Puro Etere” - dovrebbe rispondere la Dea, ma non lo ricorda. Per questo deve vedersi con gli occhi dell'Amante. Deve vedersi vista. Non si tratta di perifrasi ad effetto o metafore poetiche: il “vedersi vista con gli occhi dell’Amante” è una tecnica operativa tantrica, una pratica che aiuta la donna a re-integrarsi e a creare, con l’amante, l’unione perfetta, la bolla magica che trasforma Spazio e Tempo e che alcuni, nel Tantra, definiscono Realizzazione.

La descrive una delle innumeri storie di Śiva e Parvatī, la seconda moglie di Śiva, la donna “integrata”:

In un periodo in cui Śiva passava molto tempo in viaggio, a meditare con gli asceti della montagna, o a lottare contro demoni dai mille nomi e colori, Parvatī cominciò a lamentarsi. Si sentiva sola, e trascurata. Śiva all’inizio si adombrò, ha sempre avuto un cattivo carattere, ma, infine fu costretto ad ammettere che la sua sposa aveva ragione - “Perdonami giovane Dea, giuro che non starò più lontano tanto a lungo” - disse il Naarāja - “Ma, adesso, devo mettermi in viaggio, una volta ancora… Accompagnami, ti prego!” - Parvatī ritrovò immediatamente il buon umore.

“Oh, sì” - rispose - “Sono pronta a seguire il mio Sposo ovunque lui voglia!” – Corse verso casa, per fare i bagagli, ma arrivata sulla soglia si fermò - “E dove mi condurrai amor mio?” - Śiva sorrise - “Nella terra in cui andremo non avrai bisogno di vesti pesanti per scaldarti, né di acqua fresca per vincere la calura. Vieni qui, giovane Dea, e siediti davanti a me. Ascolta il tuo respiro. Non c’è niente da desiderare, niente da cui fuggire. Siedi e ascolta il tuo respiro. Nient’altro.” - Parvatī si sedette di fronte allo Sposo. Chiuse gli occhi. In silenzio. Si sentiva bene, straordinariamente bene. Le pareva che l’aria passasse attraverso la pelle, i muscoli, le viscere. Le ossa erano pietre preziose, e il Prāa, filo sottile, le penetrava, dolcemente, ad una ad una, per farne monili più ricchi e splendenti delle volte ricamate del cielo.

- “Le stelle…” - disse Śiva. La sua voce era dolce, e calda, come il vento d’estate - “Cerca le stelle dentro di te…” - Nelle orecchie della Dea risuonò il canto di mille e mille insetti. Grilli, cicale e dolci api nere sussurravano, insieme, l’inno della creazione. Le stelle danzavano, a quel canto, e all’improvviso presero la forma del Dio. Śiva era dentro di lei! E la guardava, colmo d’amore, la guardava come fosse la prima e l’ultima volta. Si commosse, Parvatī, e nelle sue lacrime il volto di Śiva si disciolse. C’era solo luce adesso, e silenzio. Una luce dorata e il silenzio. Il supremo Oṃ. Oṃ è tutto questo…Il passato, il presente e il futuro è soltanto l’okāra. E ciò che oltrepassa il triplice tempo è ancora la sillaba Oṃ.

Parvatī aprì gli occhi e vide il suo sposo, dinanzi a lei. Sorrise.

 

Il “viaggio interiore” di Parvatī ci insegna due diverse modalità operative tantriche: l'amore che nulla pretende e la meditazione sull'Amato. 

L'amore che nulla pretende, che volendo si può definire “Surrender” è l'unico mezzo possibile per trasmettere la conoscenza da cuore a cuore. Significa che trai due “amanti”, maestri e discepoli l’una dell’altro, si stabilisce un rapporto di totale comunanza e fiducia nel quale le maschere e le pretese dell’Ego non hanno alcuna possibilità di esistenza. Se nella pratica psicanalitica è contemplato il transfert, ovvero la reciproca proiezione di stati d'animo e contenuti psichici, nel rapporto tantrico i due si annullano completamente.

 

Non esiste l’individuo, esiste solo la coppia. Senza i filtri della mente raziocinante (raziocinante, non razionale che è altra cosa) i due si ritrovano nudi, indifesi, privi di armature e protezioni. I sentimenti che provano sono simili a quelli dell'adolescente alla prima cotta, quando l’Amore è unico, perfetto, eterno.

 

Non c'è orgoglio, non c'è difesa delle proprie prerogative né della propria dignità nell'amore che nulla pretende. C'è solo la necessità di donarsi. L'amore che nulla pretende che insorge tra gli amanti tantrici è fuori dal tempo. Semplicemente “è”, e sempre sarà. E si ripresenta, identico a se stesso, ogni qualvolta vi siano due "persone" che si incontrano porgendo il cuore l’uno all’altra. La conoscenza, la via per la Liberazione, si trasmette solo attraverso l'amore che nulla pretende, e questo prescinde la volontà individuale, le scelte della mente discorsiva, i pregiudizi, gli usi ed i costumi della società in cui si vive. 

 

La seconda tecnica operativa di cui ci parlano Śiva e Parvatī è la meditazione sull'Amato. Si tratta di visualizzare la forma di chi si ama, nei più piccoli dettagli, fin quando non si è pronti a "dargli vita". È un'opera d'arte. Una volta che la visualizzazione è portata a termini si infondono nell'amato le prerogative divine e si riconosce in lui/lei la divinità preferita (Iṣṭadevatā) quindi lo si assume nel cuore, lo si integra e si lascia che la sua "presenza si espanda nel nostro corpo ed oltre-

Fino ad avere l'impressione che il corpo non basti più. Fino ad essere Uno con l'amato. 

Fino ad essere Uno con l’Universo.


 

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