La parola samādhi, talvolta usata come sinonimo di
dhyāna o jhāna, è intimamente connessa a prajñā, o conoscenza intuitiva.
Per il buddhismo, “prajñā è la luce e
samādhi il lampo”, ad indicare che prajñā è la consapevolezza che illumina
ogni istante di vita dell’Universo, mentre samādhi
è, per così dire, “un momento di suprema consapevolezza”, la visione momentanea,
non stabilizzata, della luce di prajñā. Nel
buddhismo Theravada Samādhi e Prajñā, sono, assieme a Sīla (corretto agire), gli strumenti a disposizione
del praticante per percorrere il “Nobile Ottuplice Sentiero”:
1.
Sīla, “corretto agire”
(retta parola, retta azione, retta condotta di vita/sussistenza).
2.
Samādhi, “meditazione”
(retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione).
3.
Prajñā “conoscenza intuitiva”
(retta visione, retta intenzione).
Per arrivare alla
meta finale, bodhi o Risveglio spirituale.
Secondo il Canone Pāli il praticante deve
realizzare otto stati progressivi di jhāna:
Quattro meditazioni
con forma (rūpa) e quattro meditazioni
senza forma (arūpa jhāna).
C’è poi una nona realizzazione, la più alta, chiamata Nirodha-Samapatti, collegata alla percezione, e “utilizzazione” di Citta-Saṃtāna, il flusso mentale.
Ciò che impedisce al praticante di ottenere la realizzazione è una serie di processi, probabilmente innati o comunque "automatici", che influenzano le modalità del pensiero.
Questi processi determinano cinque diverse condizioni della mente (dalle quali,
a loro volta sono determinati dando vita ad un circolo vizioso) chiamate nel buddhismo
delle origini cittabhūmi, o “territori
della mente”:
1. Kṣipta, “confusione”.
2. Mūḍha, “ottusità, stupidità”.
3. Viksipta, “dispersione, agitazione”.
4. Ekagra, “attenzione concentrata”.
5. Niruddha, “controllo”.
Quando lo yogin riesce a mantenere la mente nella condizione di controllo (niruddha) arriva a poter percepire la percezione (e utilizzare) un flusso di energia chiamato citta-saṃtāna (dove saṃtāna significa “serie di eventi in successione, continuità, flusso ininterrotto”). Tecnicamente citta-saṃtāna è "il flusso, consequenziale, degli istanti di consapevolezza sperimentati dal praticante". Per fare un esempio è come se facessimo una serie di sogni nei quali, ogni volta, la storia comincia dal punto in cui si era interrotta nel sogno precedente. Anche se ciascun sogno avvenisse a distanza di mesi o anni dal precedente, avremmo la sensazione di un "continuum", come un film che, nonostante sia interrotto dagli spot pubblicitari, mantiene la propria coerenza narrativa. Citta-saṃtāna, inteso come sequenza di istanti di pura consapevolezza, è ciò che ci permette una continuità coscienziale sia durante la vita terrena (una specie di centro di gravità permanente), sia tra una vita all'altra, quasi fosse la fiamma che viene passata da una candela all'altra.
Il potere della
mente, secondo lo yoga, è immenso. Lo yogin realizzato può creare interi mondi,
ma l’essere umano inconsapevole di quel potere diviene succube. I vortici della
mente dipingono una forma fittizia del Sé, un feticcio di “io” formato delle impressioni
causate dalla cultura, dalle emozioni e dalle azioni che ne scaturiscono. Di solito
chiamiamo il feticcio “personalità” e lo identifichiamo con la Persona umana. Solo
coloro che hanno accesso al “flusso mentale” diventano consapevoli del potere creativo
della mente.
Nel buddhismo citta-saṃtāna è la base
di ciò che viene talvolta chiamato "tulpa", ovvero la capacità,
magica, di creare immagini, oggetti e fenomeni con il potere della mente. Buddha riesce a creare un
corpo mentale, manomāyakāya[3],
e a moltiplicarlo fino a riempire il cielo di infinite forme a sua somiglianza[4] proprio
grazie all'utilizzazione del “flusso”.
Nel Patisambhidamagga (Canone Pāli) e nel
Visuddhimagga di Buddhaghoṣa, si afferma
che gli yogin, usando citta-saṃtāna possono creare un corpo mentale con il quale viaggiare nei regni terreni e nei
regni celesti. Questa capacità di usare il flusso mentale viene definita nell'Abhidharmakośa
di Vasubandhu "nirmita", mentre Asanga nel Bodhisattvabhūmi la chiama "nirmāṇa"
e la definisce "un'illusione magica e fondamentalmente, qualcosa senza una
base materiale".
In tempi moderni Alexandra David-Neel[5] (definisce i tulpa "formazioni
magiche generate da una potente concentrazione di pensiero" e racconta
di essere stata testimone di fenomeni paranormali legati al citta-saṃtāna
nel Tibet del XX secolo.
Secondo David-Néel "un Bodhisattva
completo è in grado di eseguire dieci tipi di creazioni magiche." Il potere
di produrre formazioni magiche durature che abbiano effetti nella realtà materiale
non apparterrebbe solo ai grandi illuminati: ogni essere vivente sarebbe in grado
di generare delle "forme pensiero" il cui grado di "realtà"
dipenderebbe solo dai diversi livelli di concentrazione del praticante.
Alexandra David-Néel scrive che i tulpa
avrebbero la capacità di sviluppare una propria mente:
"Una volta
che il tulpa è dotato di sufficiente vitalità per essere capace di recitare la parte
di un essere reale, tende a liberarsi dal controllo del suo creatore. Gli occultisti
tibetani, accade quasi meccanicamente, proprio come il bambino, quando il suo corpo
è completato e capace di vivere a parte, lascia il grembo materno”[6].
La studiosa franco-belga sosteneva di aver creato personalmente un tulpa che aveva la forma di un "frate
allegro". Il frate in seguito avrebbe sviluppato una vita propria e dovette
essere distrutto.
"Forse" - scrive ancora David-Néel - "ho creato la
mia allucinazione, ma anche gli altri potevano percepirla”.
[1] Vyutthāna-nirodha-saṁskārayoḥ abhibhava-prādurbhāvau nirodhakṣaṇa
cittānvayo nirodha-pariṇāmaḥ ॥9॥
[2] Tasya praśānta-vāhitā saṁskārat
॥10॥
[3]
Vedi Samaññaphala Sutta.
[4]
Vedi Divyāvadāna.
[5]
Vedi: David-Neel, Alexandra; DʼArsonval, A. 2000. “Magic and Mystery in Tibet”. Escondido, California: Book Tree.
[6]
Vedi testo citato.
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