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LA PRATICA DEL SAMADHI E LO YOGA DEI SUFFISSI

 




Al giorno d'oggi il termine  Yoga è usato spesso come suffisso. C'è una parola, qualche volta in inglese, raramente in italiano molto spesso in qualche lingua orientale, che precede "Yoga". Soprattutto quando si usano dei termini in sanscrito, cinese o giapponese, viene da pensare che si tratti di discipline antiche o antichissime, ma di solito si tratta di tecniche moderne che possiamo dividere, grosso modo, in due categorie: 

1) Sistemi di "integrazione psicofisica" che nascono dalla combinazione di elementi effettivamente appartenenti alla tradizione indiana, con pratiche occidentali, come la danza contemporanea, la bioenergetica, la fisioterapia  e la ginnastica dolce novecentesche;

2) Metodi di rilassamento e conoscenza di Sé derivanti dalla personale esperienza di un caposcuola, solitamente carismatico.

Molte delle nuove/antiche discipline caratterizzate dal suffisso Yoga sono Brand, etichette protette da un copyright, e questo potrebbe far storcere un po' la bocca ai "puristi dello Yoga", ma, personalmente, visto che viviamo nel mondo del Mercato globale, non ci trovo niente di male: sono rari i personaggi che si arricchiscono con lo Yoga e la maggior parte degli inventori e dei divulgatori  dello "Yoga dei Suffissi" agisce in buona fede,  con l'unico scopo di mettere la propria personale esperienza al servizio degli esseri senzienti.

Secondo il sito WEB, molto ben fatto, https://eventiyoga.it/, ai nostri giorni ci sono almeno 65 diversi tipi o scuole di Yoga, spesso diversissimi tra loro, e i praticanti possono scegliere a quale corso annuale o stage intensivo partecipare in base all'etichetta.

Si tratta di un dato di fatto, da non giudicare assolutamente - la diversificazione dell'offerta è una delle esigenze del Mercato - ma che può sorprendere gli anziani yogin come me, nati in un epoca in cui, in genere,  si parlava semplicemente di Yoga senza prefissi e suffissi.

C'era lo ZEN però. 

Sull'onda lunga della Beat generation tra gli anni 60 e gli anni 80 del secolo scorso non c'era circolo culturale, palestra o Associazione che non proponesse almeno un corso annuale di un qualcosa che avesse a che fare con lo Zen: Ginnastica Zen, Danza Zen, Meditazione Zen, Tiro con l'Arco Zen....c'erano pure l'Arte della Manutenzione della Motocicletta Zen e, ovviamente, lo Yoga Zen.




Con il passare degli anni lo Zen perse terreno e, forse in virtù dell'alto numero di celebrità che praticavano Yoga, il suffisso preferito da palestre, Associazioni e Circoli Culturali divenne, appunto Yoga, fino ad arrivare agli, almeno,  65 diversi stili e scuole riconosciuti di cui si parla ai nostri giorni.

Di per sé, come ho già detto, non è affatto un fenomeno negativo, ma, unito alle ovvie necessità di promozione e di fidelizzazione può generare dei fenomeni paradossali.

Supponiamo che io inventi una tecnica, che si rivela validissima per la salute, ispirata alla danza contemporanea e la chiami  Paolochedanza Yoga.

Nel programma di studi inserirò movimenti fluidi, elementi di stretching, tecniche di respirazione, visualizzazione e concentrazione, ma, magari perché non le conosco, eviterò di inserire tecniche specifiche dello Haṭhayoga come, ad esempio, Naulī (नौली), Uḍḍīyana Bandha (उड्डीयन बन्ध) o Khecarī Mudrā (खेचरी मुद्रा).

Supponiamo che lo stile Paolochedanza Yoga abbia successo e che io cominci a formare degli istruttori che poi a loro volta formeranno altri istruttori: alla fine i 100, 1.000 o 10.000 allievi che praticano con me o con gli istruttori da me formati penseranno, in buona fede che NaulīUḍḍīyana Bandha  o Khecarī Mudrā non siano esercizi di Yoga o magari siano delle tecniche stravaganti o troppo difficili da essere insegnate. 

Ad un certo punto potrei arrivare anche a non insegnare posizioni come Śīrṣāsana (शीर्षासन) e, addirittura Padmāsana (पद्मासन) perché potenzialmente pericolose per le cervicali e le articolazioni del ginocchio, e potrei dire che la postura del "Gallo" (Kukkuṭāsana कुक्कुटासन), o una delle altre posture di difficile esecuzione considerate fondamentali sia nei testi medioevali sia nelle Upaniṣad  dello Yoga (parte integrante dei Veda) siano inutili esibizioni di contorsionismo.



- Nessuno può vietarmi di creare un mio proprio metodo e di usare Yoga come suffisso;
- Nessuno può aver niente da dire se io giudico, dal mio punto di vista, dannose o inutili tecniche come Uḍḍīyana Bandha  o Kukkuṭāsana;
- Nessuno può impedirmi di formare insegnanti che divulgano il mio metodo.

E se per caso sono bravo ed ho una buona conoscenza del corpo umano e dei processi mentali farei solo del bene a me e agli altri.


Almeno la metà dei 65 stili e scuole di Yoga riconosciuti sono come  il mio ipotetico "Paolochedanza Yoga": un insieme di esercizi fisici e/o tecniche di rilassamento psicosomatico elaborato e assemblato in un metodo organico da un caposcuola sulla base della sua esperienza personale.

Oggi si chiama Yoga qualsiasi tecnica finalizzata al miglioramento della salute psichica e fisica. Tutto può ambire ad ottenere il suffisso Yoga così come nel secolo scorso tutto poteva essere definito Zen.
Si tratta di un dato di fatto, né positivo né negativo, che risponde alle necessità del Mercato, in virtù del quale alcune tecniche ritenute fondamentali fino al secolo scorso - come le ṢAṬKRIYĀ (Netī ,Dhautī , Naulī, Basti, Kapālabhātī, Trṭaka ), stanno scomparendo dal programmi delle Scuole e dei Centri di Formazione occidentali.

Lo "Yoga dei Suffissi" sta trasformando la maniera di intendere e di praticare lo Yoga, e probabilmente, bisogna farsene una ragione. Ma nella mente degli "anziani" come me si fa spazio sempre più spesso una domanda tra virgolette "imbarazzante": Se lo Yoga, come si diceva un tempo, è "la pratica del Samādhi" ed è finalizzato all'ottenimento di uno stato di beatitudine suprema definito Sahaja (सहज) o Mokṣa (मोक्ष) non sarà che con tutti questi "Yoga dei Suffissi" si stia perdendo di vista il fine ultimo della disciplina che tutti noi amiamo, pratichiamo e diffondiamo?


Pare che oggi - stima non so quanto attendibile che ho letto sul WEB -  in Italia ci siano 10.000 insegnanti di Yoga: quanti di loro hanno vissuto l'esperienza del  Samādhi?
Quanti hanno sperimentato l'insorgere - temporaneo di solito - dei poteri psichici che, a quanto risulta da tutti (TUTTI) i testi tradizionali  accompagna  l'esperienza del Samādhi?

I casi sono due:

1) Quella del Samādhi  e dei poteri psichici (da non ricercare, ma da accettare secondo gli insegnamenti tradizionali) è una balla e allora tutti noi stiamo praticando e insegnando una disciplina nata intorno ad una menzogna;

2) Nella maggior parte delle scuole di Yoga italiane non si insegna Yoga, ma altra roba simile alla ginnastica  occidentale e/o alle tecniche di rilassamento psicosomatico novecentesche;

 



Nel corso della mia ormai cinquantennale esperienza di praticante e insegnante, ho assistito ad una progressiva modificazione delle tecniche, della nomenclatura e, addirittura, della maniera stessa di intendere lo Yoga. 

Quando ho iniziato a praticare ad esempio, difficilmente si parlava di stili o di scuole: facevamo “Yoga”, senza suffissi e prefissi, una disciplina psicofisica basata su un numero limitato di “Tecniche di purificazione” - definite Ṣaṭkriyā, Ṣaṭkarma o semplicemente Kriyā, brevi sequenze, fondate su un numero limitatissimo di āsana, e soprattutto su una intensa pratica che noi definivamo di meditazione, che consisteva in genere nel sedersi a gambe incrociate o in ginocchio, aspettando il vuoto mentale o effetti luminosi mentre venivamo guidati in tecniche di visualizzazione e di controllo della respirazione accompagnate dalla recitazione –mentale o “borbottata”, di mantra e sillaba seme.

Rispetto all’incredibile varietà di tecniche e posture e alla complessità delle teorie filosofiche – o meglio delle interpretazioni - che vengono proposte oggi, si trattava di una pratica abbastanza elementare. 

La differenza tra quello yoga, per me, delle origini e lo yoga odierno si nota soprattutto nel numero degli āsana; le posture che studiavamo all’epoca, che chiamavamo quasi sempre con i loro nomi in italiano, erano non più di una decina. A questo nucleo di base alcuni aggiungevano le varianti, ma in genere, dopo una serie di esercizi di scioglimento e di allungamento, si praticavano sempre le medesime posizioni:

1.     Posizione del “Loto”, con le sue varianti (“mezzo loto”, "Loto legato" ecc.);

2.     Posizione in ginocchio, simile al seiza giapponese, con le sue varianti (talloni in contatto con gli ischi, piedi ai lati delle cosce, schiena allungata indietro o rilassata in avanti ecc.);

3.     Posizione del “Cobra”, con le sue varianti (braccia tese, braccia a 45°, braccia appoggiate sui glutei, punte dei piedi a terra, dorso del piede appoggiato a terra…tutte posizioni che chiamavamo “Cobra”);

4.     Posizione della “Locusta”, con le sue varianti;

5.     Posizione dell’Arco, con le mani alle caviglie e il dondolio ritmico a ritmo della respirazione;

6.     Posizione della Spaccata sia sagittale sia frontale sia in equilibrio sugli ischi, accompagnata dagli allungamenti che oggi chiamiamo Paschimottanasana e Janu shirshasana);

7.     Posizione del “Ponte”, con le sue varianti (appoggio sulle spalle, sulla testa o sulle braccia);

8.     Posizione in “Verticale” – definizione nella quale facevamo rientrare tutte le varianti della verticale sulla testa, la verticale sui gomiti (“Scorpione”) e la verticale sulle braccia – preceduta dall’Aratro e dalla “Candela”;

9.     Posizioni in torsione, tra cui “Matsyendrasana”, che facevamo prima di salire in piedi per “sistemare” la colonna vertebrale;

10.Posizione in piedi, che assumevamo passando per “Uttanasana” e trasformavamo in posizioni di equilibrio, di solito l’Albero”, che consideravamo una specie di test, dato che eravamo convinti che una buona pratica aumentasse l’equilibrio.

Dopo la pratica fisica, che riguardava di solito non più di due o tre delle dieci posizioni con le loro varianti e i movimenti preparatori, ci sdraiavamo nella posizione del “Cadavere” e dopo cinque dieci minuti di rilassamento profondo praticavamo “lo Yoga”, ovvero meditavamo cercando di sospendere il respiro e di mantenere la lingua sul palato o, i più esperti, a contatto con il palato molle e aspettavamo l’insorgere di “effetti luminosi” e del “suono interiore”, la cui percezione, secondo i miei istruttori, si sarebbe accompagnata alla discesa nel palato di un liquido dolce: l’Amrita.

Se pensiamo ad esempio alle più di 200 posture insegnate da Iyengar[1] o all’assenza, nella mia antica pratica, del Saluto al Sole, ripetuto – nelle sue varianti – fino a 108 volte in alcune scuole, bisogna ammettere che si trattava di un lavoro elementare, tanto è vero che, per colmare le mie lacune, a partire dal 2000, mi sono impegnato per imparare decine e decine di posizioni e sequenze diverse, e centinaia di definizioni in sanscrito.

Poi, poco tempo fa, mi sono imbattuto nel Gorakṣa Paddhatiगोरक्षपद्धति) [ il “Sentiero di Gorakṣa” detto anche Gorakṣa Saṃhitāगोरक्ष संहिता) o “Raccolta di Gorakṣa[2]Gorakṣa Yogaśāstra (गोरक्षयोगशास्त्र) o "gli insegnamenti sullo Yoga di Gorakṣa"], ed ho cominciato a pensare che quello Yoga semplice - e secondo me "efficace" - che praticavamo all'inizio degli anni '70 era più in linea con gli insegnamenti tradizionali dello Yoga dei Suffissi dei nostri giorni.

Il Sentiero di Gorakṣa consiste in una raccolta di 200 versi, divisi in due sezioni chiamate in sanscrito śataka - 100, “un centinaio”[3] – e attribuiti allo yogin Gorakṣanāth o Gorakhnāth, considerato il fondatore dello Haṭḥayoga.  Gorakṣa Paddhati,  è probabilmente il più antico testo di Haṭḥayoga giunto ai nostri giorni, ed i suoi insegnamenti potrebbero essere la base di tutti o quasi i manuali di yoga scritti nelle epoche successive.

Cosa insegna Gorakṣa (oltre ovviamente a ribadire che "lo Yoga è la pratica del Samādhi")?

 Poche posizioni, descritte dettagliatamente, e una serie di bandha, tecniche di ritenzione del respiro, visualizzazioni e mantra finalizzati all’ascolto del suono interiore e alla discesa dell’Amrita.

L’importanza del suono interiore alla luce degli insegnamenti di Gorakṣa è messa in rilievo anche in altri testi tradizionali, nello Haṭha Yoga Pradīpikā di Svātmārāma, ad esempio, dopo aver citato due volte il nome di Gorakṣa all’inizio del testo – vedi H.Y.P. 1. 4-5) – l’autore cita gli insegnamenti del Gorakṣa Paddhati nel IV capitolo, a proposito della “meditazione sul Suono interiore” o अनाहतनाद Anāhata Nāda (H.Y.P. 4. 65):

aśakya-tattva-bodhānāṃ mūḍhānām api saṃmatam |

proktaṃ gorakṣa-nāthena nādopāsanam ucyate || 4.65 ||

“Adesso viene spiegato il metodo di meditazione sul suono interiore (nādopāsamna) insegnato da Gorakṣa Nāth che è stimato (saṃmatam) anche (api) dagli ignoranti (mūḍhā) per i quali la conoscenza della Realtà (tattva) è impossibile (aśakya).”

L’insegnamento di Gorakṣa appare diversissimo da quello impartito dalla maggior parte di scuole di Yoga contemporanee e se si pensa che è stato lui ad usare per la prima volta il termine Haṭhayoga e, pare a sistematizzare posizioni e tecniche di visualizzazione le insolenti mosche del dubbio cominciano a ronzarci nelle orecchie e usa termini che moltissimi validi istruttori di Yoga che conosco ignorano.

Per fare un esempio cito i versi 12 e 13 della prima "centuria" del Gorakṣa Yogaśāstra :

1.      “Come possono avere successo [nella pratica] gli yogin che non conoscono i sei cakra, i sedici ādhāra le due modalità di visualizzazione – lakya - e i vyoma pañcaka[1] nel proprio corpo?”

2.      “Come possono avere successo quegli yogi che non conoscono il corpo come una casa poggiata su un pilastro – ekastambha- con nove porte e cinque divinità protettrici[2]?”

Per "successo" Gorakṣa  intende la "realizzazione", accompagnata dall'insorgere dei poteri psichici (siddhi) che deriva dalla pratica del Samādhi.
Già, perchè lo Yoga, secondo Gorakṣa, Patañjali Adiśaṅkara,  è "la pratica del Samādhi" .

Mi chiedo:

Dando per scontato che inventarsi sempre nuovi Yoga dei suffissi, con nuove sequenze, posture e tecniche di rilassamento accattivanti sia, nell'epoca del Mercato Globale una cosa buona e giusta;
Dando per scontato che semplificare tecniche e concetti per avvicinare sempre più gente allo Yoga sia cosa buona e giusta...Non sarà il caso che noi insegnanti e istruttori di Yoga ci mettiamo a studiare i testi "tradizionali" e discutiamo tra noi delle tecniche medioevali e del fine stesso dello Yoga?



[1] Le "cinque stanze" ( Vyoma Panchaka ) sono denominate nella Siddha-Siddhānta-Paddhati in questo modo: 

  1. Ākāśa;
  2.  Parākāśa;
  3.  Mahākāśa;
  4. Tattvākāśa;
  5. Suryākāśa.

Non si tratta delle "cinque guaine" (Pañcakōṣa, ovvero: annamayakōśa, prāṇamayakōśa, manōmayakōśa, vijñānamayakōśa, ānandamayakōśa) conosciute nell'Advaita Vedānta, ma di una tecnica di visualizzazione ldelo spazio, sia interno sia esterno. Le "cinque stanze" probabilmente sono collegate ai Pañcacakra, i cinque “cakra mistici” della tradizione tantrica.

[2] Nell’originale “pañcādhidaivata”, con pañcadaivata che significa letteralmente “avere cinque divinità” ed è riferito ai cinque organi di senso. Vedi Yogaśikhopaniṣad 4.




[1] Vedi: B,K,S, Iyengar, “Teoria e Pratica dello Yoga”, Edizioni Mediterranee.

[2] La versione cui facciamo riferimento è quella di Swami Vishnuswaroop pubblicata da “Divine Yoga Institute, Kathmandu 2017” (https://www.amazon.it/Goraksha-Samhita-Known-Paddhati-English-ebook/dp/B00QTCGI7W), Revisionata secondo l'edizione di Laxmi-Venkateshwar Press, Bombay.

[3] Essendo la seconda “centuria” di 67 versi immagino ne siano andati perduti alcuni.


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