LE MILLE TRADUZIONI DELLA BHAGAVADGĪTĀ E I FILTRI COGNITIVI – CONFESSIONI DI UNO HAṬḤAYOGIN IGNORANTE N.2.
Il mio ultimo post sul sanscrito – “Confessioni
di uno Haṭḥayogin ignorante” – ha suscitato un acceso dibattito, e visto che
confronti e condivisioni, secondo me, per un ricercatore sono indispensabili
stimoli, ho pensato di scriverne la seconda parte.
Tanto per chiarire la mia
intenzione non è certo quella di insegnare il sanscrito ai sanscritisti:
sarebbe come rubare in casa dei ladri!
È come se un illustre linguista venisse ad insegnare bandha e mudrā ai miei allievi quasi tutti istruttori e praticanti esperti: sarebbe ridicolo!
Esattamente come sarei ridicolo io se volessi insegnare le regole del
sandhi ad un gruppo di eruditi sanscritisti.
I miei sono semplici tentativi di
collegare due ambiti che, nonostante l’apparente vicinanza, mi pare che, a volte,
facciano fatica a comunicare tra loro.
Le difficoltà di comunicazione –
ribadisco che è una mia opinione e non un fatto acclarato – secondo me dipendono
da quelli che ai miei tempi venivano chiamati “filtri cognitivi” e che adesso
hanno preso il nome di bias, parola credo di origine francese che
dovrebbe significare “obliquo/obliqui”.
I Bias sono dei corto
circuiti mentali che ci impediscono di vedere la realtà così come è, nel senso
che, in buona fede tendiamo a prendere fischi per fiaschi, come faccio io
quando cerco di tradurre il sanscrito senza conoscerne perfettamente le astruse
regole grammaticali.
Uno dei filtri cognitivi più
comune è quello che ci fa “scambiare una parte per il tutto” e ci porta a pensare di aver sempre ragione.
Supponiamo, per rimanere in tema,
che io sia un esperto sanscritista:
La lingua degli antichi yogin e veggenti per me non ha segreti e improvvisamente scopro - o credo di scoprire – delle analogie tra l’antico sapere vedico e la meccanica quantistica.
Eccitato
mi butto a capofitto nello studio della fisica moderna, e…divento vittima di
uno strano incantesimo in virtù del quale credo di saperne di più di un Fisico
dell’Enea o di un ricercatore della NASA.
La cosa strana è che se il
ricercatore scientifico avrà costantemente dei dubbi, io invece avrò solo
certezze e tanto meglio conosco il sanscrito tanto più prenderò abbagli nella
meccanica quantistica.
È questo il meccanismo per cui
storici acuti e intelligenti diventano immediatamente terrapiattisti o
abilissimi commercialisti di Ladispoli diventano yogin illuminati dal giorno
alla notte:
Si tratta di pura magia, da un
certo punto di vista, e tutti, nessuno escluso, rischiamo di diventare vittime
di miraggi e di prendere epocali cantonate, e più siamo preparati in un campo
specifico più rischiamo di fare la figura dei cretini in un altro.
È il cervello umano che funziona
così, non possiamo farci niente. L’unica possibilità che abbiamo è quella di
discutere, condividere, confrontarsi e comprendere che “non sono sempre e solo
gli altri a prendere cantonate” (altro comune filtro cognitivo).
Per continuare il discorso del
problematico – per me ripeto - rapporto
tra sanscritisti eruditi e Haṭḥayogin,
vorrei parlare della insostenibile relatività del sanscrito:
A meno che non siano copiate l’una dall’altra, le traduzioni di un testo
tradizionale sono spesso – o sempre – completamente diverse l’una dall’altra.
Facciamo un esempio pratico con la Bhagavadgītā;
Prendete queste traduzioni:
1) Marcello Meli, Bhagavad Gita, Milano
1999, Mondadori. ISBN 88-04-45395-8;
2) Stefano Piano, Bhagavadgītā: Il Canto del Glorioso
Signore, Cinisello Balsamo 1994; Edizioni Paoline. ISBN 88-215-2827-8;
3) Anthony Elenjimittam, La Bhagavad Gita,
Milano 1987; Mursia. ISBN 987-88-425-8824-5;
4) Sri Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gita,
Roma 1983, Edizioni Mediterranee; ISBN 9788827205433.
Basta
leggere poche pagine per capire che si tratta di quattro libri diversi. Gli autori,
tutti eminenti studiosi o addirittura maestri spirituali, non sono d’accordo
neppure sul titolo.
Il
povero Haṭḥayogin ignorante, che da decenni si sente ripetere che la
Bhagavadgītā è il libro dei libri dello
yoga, non sa che pesci prendere:
Apre il libro di Aurobindo e gli
sembra che gli si chieda di abbracciare la Teosofia, legge Elenjimittam e ha l’impressione che la gītā
sia stata scritta da san Paolo, Piano parla come un filosofo tedesco che ha
scoperto la devozione e lo scritto dell’amico Marcello pare la versione indiana
dell’Iliade.
Tutte
e quattro le versioni sono belle e intriganti e non mi sogno neppure di mettere
in dubbio l’opera di uno o l’altro dei traduttori - figuriamoci! – ma alla fine
sono molto spaesato:
“Insomma
– viene da dire – potreste spiegarmi come lo spieghereste ad un bambino di
otto anni che cosa c’è scritto nella gītā?”
Sembra quasi che gli eminenti traduttori non siano d’accordo neppure sul titolo, e, a dar retta a tutte le diverse interpretazioni nasce il sospetto che il sanscrito sia come la bottiglia verde di Bradbury, che cambia il contenuto a seconda dei desideri di chi la possiede.
Sono sicuro che tutti gli
illustri letterati autori delle molte, migliaia credo, versioni della B.G.
saprebbero giustificare con sagacia la scelta di un termine anziché un altro o l’adesione
ad una scuola filosofica anziché un’altra, ma ciò non toglie che lo yogin
rimanga parecchio confuso.
Tra l’altro questo fiorire di
studi e versioni diverse ha il risultato di convincere sempre di più gli
appassionati di yoga che la lettura della gītā sia indispensabile e si
finisce per dedicare anni – quattro nel mio caso – a cercare di comprendere le
sottigliezze linguistiche e filosofiche delle diverse traduzioni, abbracciando
una volta la “via della Ragion Pura” e un’altra la “via della devozione”
costruendo un micro-mondo che gira intorno a questo libro di 500 o 700 versi –
per Diana! Non sono d’accordo neppure sul numero di versi i traduttori! - e dimenticando il contesto storico,
letterario e filosofico in cui è stato composto.
Non so se ci avete mai pensato, ma la massa poderosa
di informazioni che circola sulla B.G. finisce per oscurare il Mahābhārata,
il più lungo poema in versi della storia dell’umanità.
A prescindere dalle leggende le prime tracce di
manoscritti recanti dei brani riconducibili al Mahābhārata risalgono
al più tardi al XIV secolo della nostra era.
Nel XVII secolo un brahmino di Vārāṇasī - Nīlakaṇtha Caturdhara –
raccolse una serie di manoscritti in un’unica opera di 82.000 versi
chiamata oggi “Mahābhārata settentrionale” o “vulgata”.
Due secoli più tardi – nel 1839 -
l’Asiatic Society of Bengal, emanazione della Loggia Massonica di
Calcutta, dette alle stampe una propria versione, derivata da quella di Nīlakaṇtha, ma
con aggiunte moderne.
Nel 1936 viene terminata invece la versione detta “meridionale” composta da
95.000 versi e, infine, tra il 1918 e il 1943 venne alla luce la cosiddetta
“versione critica” a cura dell’Oriental Research Institute di Poona, composta
da 75.000 versi, cui nel 1972 sono stati aggiunti i 16.374 versi dell’Harivaṃśa
opera dedicata alla vita di Kṛṣṇa.
Anche limitandoci alla versione critica - 75.000 versi – dobbiamo ammettere che all’interno del Mahābhārata i forse 700 versi della Bhagavadgītā sono una goccia nel mare; si tratta per così dire di un capitolo del VI libro - su XVIII – chiamato se non sbaglio “Libro di Bhīṣma”.
“Perché” - si chiede lo Haṭḥayogin ignorante – “gli eruditi si accaniscono tanto su questo
libro?” – ci deve essere qualcosa di “grosso” dietro, altrimenti non
avrebbe assolutamente senso.
Sarebbe come se dall’Iliade – che per curiosità consta di 15.696 versi – si
prendesse solo la storia di Patroclo e ci si scrivessero decine di versioni,
centinaia di commenti e migliaia di glosse:
“Patroclo prende le armi di Achille: i troiani fuggono, poi arriva
Ettore e lo uccide. Fine.”
Pensateci: i motivi della scelta ci sarebbero e i temi da trattare –
dall’amore/amicizia virile allo scambio di persona, dal potere del simbolo al
sacrificio – sarebbero molti e appassionanti, ma trascurando il resto della
storia Elena, Briseide, Menelao, Paride, Odisseo, Aiace, Calcante, Agamennone,
Aiace…sarebbero ridotti a note a piè di pagina e il senso dell’intera storia
verrebbe smarrito.
Per quale motivo il resto del Mahābhārata è
così poco importante?
Possibile che nei restanti 74.500
versi non ci sia niente che valga la pena di un corso universitario, una
traduzione o una conferenza?
Dato che da decenni si dice che
il vero insegnamento dello yoga è celato nella B.G., il vero yoga è il karma
yoga della B.G., il vero yogin è il guerriero Arjuna, impressionato dalla
potenza di fuoco delle case editrici e delle università il povero Haṭḥayogin ignorante, ma entusiasta, si getta con
tutta la sua energia nell’ardua impresa di scegliere la traduzione migliore e
di cercare di capire quali sono le attinenze tra le gesta di Arjuna e la sua
pratica.
In realtà, superata la voglia di ironizzare sulle centinaia di “samjaya
uvāca”, “Arjuna uvāca”, “śrī bhagavān uvāca”, il libro è bello e, a prescindere dalle diverse
traduzioni non sembra troppo difficile per uno yogin: parla del Sāṃkhya,
del karma, del “non agire”, del significato delle sillabe Oṃ
Tat Sat… tutte cose che un Haṭḥayogin praticante
mastica o dovrebbe masticare.
Quello che un po’ confonde, lo dico senza ironia, di solito sono le lunghe note e le lunghe “considerazioni/riflessioni” che molti traduttori inseriscono dopo ogni capitolo, tanto che ho pensato spesso, nei miei anni di studio della B.G. che se il testo fosse tradotto nella maniera più cruda possibile, senza le lunghe glosse che spezzano la lettura sia dei versi sia dei capitoli, sarebbe molto più gradevole e comprensibile;
ma si tratta probabilmente di una mia
errata supposizione: accade spesso – è uno dei “bias” più comuni - che l’ignorante
creda di capire e sapere più cose dell’erudito.
La B.G. quindi, merita tutta l’attenzione
che “le” danno gli eruditi?
Sicuramente si; a giustificare
l’interesse basterebbe l’espediente narrativo dell’auriga veggente - anzi chiaro-udente e chiaro-veggente – che
racconta al re cieco il dialogo tra Arjuna e suo zio Kṛṣṇa: Bellissimo!
Qualunque sia la traduzione scelta, dopo la lettura della Bhagavadgītā
lo haṭḥayogin
ignorante si sente colmo di
gratitudine sia nei confronti dell’ignoto autore dei versi sia in quelli dell’erudito
che li ha tradotti e interpretati a modo suo, e nel suo cuore, bene o male si fa
strada un barlume di devozione: Arjuna che viene istruito al vero yoga dall’incarnazione dell’Essere
Supremo e, ovviamente – pensa lo haṭḥayogin ignorante – raggiunge
lo stato dell’illuminato, diventa uno stimolo alla pratica, alla meditazione e
alla riflessione sui massimi sistemi.
Ancora più "bellissimo"!
Il problema nasce quando lo haṭḥayogin ignorante, spinto da comprensibile entusiasmo, cerca di sapere cosa succede dopo il dialogo tra Arjuna e il “Signore Kṛṣṇa”.
Già, andando a vedere come
finisce il Mahābhārata si scopre che Arjuna non ottiene assolutamente l’illuminazione, ma
visto che in vita ha peccato di orgoglio finisce – nel primo dei due finali
dell’opera, il secondo dei quali sembra, a dir la verità un po’ appiccicaticcio
– in una specie di limbo che somiglia tanto all’Inferno di Dante e che poi viene
trasformato magicamente in Purgatorio.
Ma come? Arjuna viene istruito allo Yoga da Dio in terra e non raggiunge l’illuminazione?
Ma che storia è questa? Se, malauguratamente, decide di leggere l’ultimo
capitolo del Mahābhārata lo haṭḥayogin ignorante vede le sue certezze cadere miseramente a
pezzi, perché scopre:
1) Che l’autore o meglio “gli autori del poema epico non credono alla reincarnazione (i protagonisti si ritrovano tutti insieme in un mondo dei morti simile all’Ade greco;
2) Che l’illuminazione pare essere intesa come “entrare con il corpo fisico nel Paradiso di Śiva” (non ci sono dubbi su questo: i superstiti si incamminano sul monte Kailash dimora di Śiva, accompagnati dal “cane della morte” e meno uno, che entra da vivo in Paradiso, cadono tutti nei gironi dei peccatori);
3) Che lo yoga insegnato da Kṛṣṇa nella B.G. non porta assolutamente all’illuminazione e mentre Arjuna finisce agli inferi, il suo peggior nemico, crudele, imbroglione e poco rispettoso delle donne, fa bella mostra di sé su un trono costruito per lui in Paradiso;
Scusate,
eminenti studiosi – mi verrebbe da dire - io da haṭḥayogin ignorante non ho gli strumenti linguistici e filosofici per addentrarmi nel
complicato ultimo atto del Mahābhārata, ma voi che gli strumenti li avete,
perché non sprecate un po’ di tempo a spiegarci come finisce la storia di
Arjuna?
Perché a fronte di mille e mille edizioni della B.G. non esiste una sola – una – versione in italiano dell’ultimo capitolo del Mahābhārata? Perché ogni sanscritista, filosofo, intellettuale o semplice erudito con forti legami con le università e le case editrici si sente in dovere di dare una sua versione della B.G. trascurando gli altri 74.500/94.500 versi del Mahābhārata?
Guardate che, secondo me, alla fine,
la “sovraesposizione” del “Canto del Beato” fa passare una informazione – permettetemi
- falsa, ovvero che l’unico vero Yoga è quello che viene insegnato ad Arjuna nel
“Libro di Bhīṣma”.
Vorrei che faceste una prova su
internet: cercate su google “Uttaragītā in italiano”:
Sapete quanti risultati si
trovano? 12, tutti riferiti ad un’unica traduzione, non so giudicare se
attendibile o no, a cura delle Edizioni Ashram Vidya.
Fino a prova contraria il “Canto
successivo” – questo è il significato di Uttaragītā - è il racconto di ciò che accade subito
dopo la Bhagavadgītā e trovo assai strano che susciti così poco
interesse.
Si tratta di un dialogo assai
simile a quello che viene narrato nella sua “sorella maggiore”, solo che non
parla affatto di karma yoga.
Azzardo – e sintetizzo - una traduzione a braccio –che immagino sarà
grammaticalmente scorretta, ma secondo me rende l’idea – dei versi del secondo
capitolo da 11 a 21 (è Kṛṣṇa, il signore dello Yoga, che parla):
“Il canale di
destra è in relazione con il sole e corrisponde alla via degli dèi […].
Il canale di
sinistra è in relazione con la luna e corrisponde alla via degli antenati […]
Vicino all’ano,
nella parte finale della colonna, c’è un osso a forma di manico di liuto
chiamato bastone di Brahma […].
Il buco all’estremità
di questo osso è detto canale di Brahma […].
Tra il canale di
sinistra e quello di destra c’è il canale centrale, che è sottile e racchiude
in sé […] sole, Luna Fuoco […] il seme/sperma […] i soffi vitali […]
I canali sottili
del corpo umano sono 72.000, sono simili a tubi vuoti e formano una rete […].
La liberazione si
ottiene facendo scorrere le energie sottili dal basso verso l’alto [chiudendo]
le nove aperture del corpo [ano, genitali, bocca, narici, orecchie, occhi]”.
Nel “Canto Successivo”, considerato un libro sacro in India – mi pare in India sia celebre una edizione con il commento tradizionale di Gaudapada - il Signore Kṛṣṇa parla senza ombra di dubbio del raggiungimento della Liberazione attraverso lo Haṭḥayoga.
Domande da ignorante:
1) Perché - se non sbaglio - non è mai stata pubblicata una edizione critica dell’ultimo canto del “Grande Bharata”?
2) Se il fine delle traduzioni e delle interpretazioni dei testi indiani è la conoscenza, per quale motivo nessuno studioso italiano si è mai sentito in dovere di pubblicare una traduzione del “Canto successivo”? Perché si ritiene necessario pubblicare gli insegnamenti di Kṛṣṇa sul karma yoga in “274” versioni diverse, analizzando parola per parola, sillaba per sillaba, e nessuno si è mai preso la briga di pubblicare una versione critica con testo a fronte dei poco più di 150 versi in cui Kṛṣṇa insegna lo “yoga “alchemico”?
Puntualizzo che non sono domande retoriche, e mi piacerebbe molto avere delle risposte dai miei amici eruditi.
Vorrei terminare con una
provocazione, che per chiarezza non coincide completamente con il mio pensiero:
La mancanza di edizioni critiche
dell’Uttaragītā non è un caso isolato; di seguito metto i titoli di
alcuni testi di yoga considerati fondamentali dai miei istruttori indiani con,
a fianco, il numero di traduzioni in italiano pubblicate (N.B. metto
i titoli in traslitterazione “anglofona” in modo da dare la possibilità di
cercarli su Amazon):
1) Saundarya
Lahari; n° pubblicazioni in italiano “0”;
2) Dattatreya
Yoga Shastra; “0”;
3) Joga
Pradipika; “0”;
4) Goraksha
Paddhati; “0”;
5) Amaraugha
Prabodha; “0”;
6) Vedantasara
di Sadananda; “1”;
7) Goraksha
Samhita; “0”;
L’elenco potrebbe essere molto più lungo. Il sospetto è che gli eruditi e accademici italiani che si occupano di yoga, sanatan dharma e filosofia indiana siano – ripeto: è una provocazione intellettuale – vittime di un filtro cognitivo, un bias, in base al quale hanno costruito un microcosmo autoreferenziale.
Noi yogin ignoranti, che dipendiamo dagli eruditi, molto spesso rimaniamo perplessi da certe scelte e da certe lacune.
Noi yogin ignoranti, amici eruditi, siamo ammirati dalle vostre conoscenze e vi adoriamo quando recitate i versi di Kālidāsa, ma quando, oltre alla nostra pratica quotidiana, pensiamo di aver bisogno di trovare conferme nei testi tradizionali alla validità di certe nostre tecniche o a ciò che i nostri istruttori orientali ci hanno insegnato, dobbiamo telefonare, oltre che ai colleghi indiani ovviamente, a qualche amico tedesco che traduca da quella lingua, o ricorrere alle edizioni della Oxford University Press, che sembrano avanti cento anni rispetto agli italiani.
Un praticante di yoga ed uno
studioso di sanscrito o di filosofia orientale hanno fini diversi, è ovvio, ma
sarebbe bello che ci fosse una collaborazione perché il fine ultimo è la
conoscenza. Giusto?
Un sorriso,
P.
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