Le traduzioni, ad opera degli
eruditi, dei manuali di Haṭḥayoga mi hanno sempre
fatto storcere il naso:
Versi di quattro parole vengono
resi, a volte, con lunghissime perifrasi ad effetto, e indicazioni
eminentemente pratiche vengono, a volte, interpretate alla luce della
Teosofia, della filosofia tedesca del XIX secolo o della Gnosi ellenistica.
faccio un esempio al volo, con un
verso degli "Śiva Sūtra di Vasugupta con
il commento di Kṣemarāja" tradotti da Raffaele Torella, docente
di sanscrito della Sapienza di Roma (edizioni Adelphi);
2.1 - Cittaṃ mantraḥ
Per uno haṭḥayogin il verso è estremamente chiaro: "il mantra è
citta". Non c'è bisogno di aggiungere altro perché si tratta di
termini tecnici.
Cosa scrive Raffaele
Torella, traducendo, immagino, Kṣemarāja?
"1. Il mantra è
coscienza. Coscienza - ovvero ciò per mezzo di cui è percepita [...], è
attinta, riflessivamente [...] la suprema realtà -, diretta esperienza [...]
consistente nella consapevolezza riflessa di mantra [...] la cui natura è
l'assoluto sfolgorante: appunto questo è il mantra, il quale così si chiama
perché per mezzo di esso in maniera segreta, interiore, al di là di ogni
differenziazione ,è raggiunta una consapevolezza riflessa della natura del
supremo Signore [...]".
La traduzione/interpretazione del 1° verso del secondo capitolo di Śiva Sūtra è
lunga tre pagine e alla fine, sempre che riesca a leggerle tutte, il povero haṭḥayogin che in
base alla sua esperienza pratica pensava che il verso parlasse, magari,
semplicemente di una pratica operativa fondata sulle sillabe seme, si trova
completamente avviluppato da parole e concetti che per lui sono estranei o
quasi.
La prima reazione di
uno haṭḥayogin davanti a queste mirabili dimostrazioni di
erudizione - potrei fare decine di esempi - è solitamente di sconforto: il
dubbio di aver gettato al vento anni di pratica - quasi cinquanta nel mio caso
- è forte assai.
Dopo un po' però, forse per spirito di sopravvivenza, si
fa strada anche la possibilità che esistano due diverse lingue sanscrite: una
per yogin ed una per sanscritisti.
Lo Yoga – inteso come pratica di āsana, vinyāsa, mudrā, bandha, prāṇāyāma… - secondo me è un’arte, l’Arte dell’essere Umano, e
come tutte le arti ha un proprio “gergo tecnico”, una specie di “slang” in cui
frasi e parole assumono significati diversi rispetto all’uso comune e si usano
allegorie e simbolismi chiari solo per gli “addetti ai lavori”. Prendiamo, per
chiarire, l’esempio della danza classica:
Se io in una lezione pronuncio la parola “Allongé”, tutti gli
allievi, a prescindere dalla comprensione della lingua francese, comprenderanno
al volo l’indicazione e che stiano facendo un “Port de bras” o un “Arabesque”
assumeranno una precisa posizione, codificata negli insegnamenti tradizionali;
ma che accadrebbe se tra cinquanta o cento anni un “francesista” completamente
digiuno di danza si trovasse a tradurre gli appunti di uno dei miei allievi?
Tradurrebbe correttamente “Allongé” con “allungato, sdraiato” o con “elongate”
o magari, se fosse indiano, con “दीर्घ”, ma non riuscirebbe, mai a rendere perfettamente il
senso dell’indicazione che al giorno d’oggi è invece chiaro e lampante per
qualsiasi bambino/bambina che studia danza.
Secondo me c'è la possibilità che nello Haṭḥayoga accada
una cosa simile, soprattutto per ciò che riguarda i testi medioevali, scritti
spesso in un sanscrito imbastardito con termini presi da altre
lingue come il tibetano o il gujarati, per cui da una quindicina di anni ho
preso l'abitudine di tradurre alcuni brani da solo: confronto varie traduzioni,
poi prendo le singole parole e ne cerco il significato letterale sul Monier-Williams,
che pare sia un dizionario affidabile.
In alcuni casi i risultati mi danno ragione, come, nel caso del Vedāntasāra,
un manuale "tecnico" di Vedānta che ho tradotto nel 2007; si
legge per esempio nel versetto 64:
“Bhuddir nāma niścayātmiantaḥkaraṇavṛttiḥ.”
वृत्तिः vṛttiḥ = “specializzazione”;
अन्तःकरण antaḥkaraṇa = “Organo interno”;
आत्मिक ātmika = "basato su...", "caratterizzato da...";
निश्चय niścaya = “certezza”, “deliberazione”;
नाम nāma = "sta per..", "vuol dire...".
Traducendo da “ignoranti”, ovvero rendendo solo il significato letterale
più comune avremo:
“La specializzazione dell’organo interno caratterizzata
dalla certezza è chiamata Buddhi”.
Facile no?
Il Vedāntasāra è scritto tutto, più o meno, in questa maniera e anche chi come me non
mastica bene le lingue, ma ha una discreta conoscenza di pratiche e termini
tecnici può farsi un'idea di cosa volesse dire l'autore. In altri casi,
devo ammetterlo, ho preso invece delle cantonate epiche. Le mie non rare debaclé
dipendono in special modo da una serie di regole grammaticali che piacciono
tanto ai sanscritisti, ma che agli ignoranti come me appaiono assai
cervellotiche.
Guardate
questo mantra:
ॐ नमः शिवाय
La maggior parte di noi yogin lo riconosce anche se abbiamo
poca dimestichezza con il sanscrito perché è scritto su quasi tutte le sciarpe,
le magliette e i ninnoli che abbiamo riportato dall'India:
È il mantra di “Shiva”, OM NAMAH SHIVAYA, nella traslitterazione IAST ॐ namaḥ śivāya;
Supponendo che tutti conoscano il significato di ॐ andiamo sul vocabolario a cercare gli altri vocaboli e troviamo:
- Namaḥ
= “saluto”, “omaggio”;
- Śivāya
= “a śiva”, “al benefico”;
Chiaro e semplice: “OM SALUTO A SHIVA”
Adesso vediamo un altro mantra:
ॐ नमो भगवते वासुदेवाय
Nella
traslitterazione IAST ॐ namo bhagavate vāsudevāya;
Gli
yogin - “sanscritisti ignoranti” come me - sanno che “bhagavate vāsudeva” è
un modo per indicare Viṣṇu e visto che alla fine del mantra c’è “āya” si può pensare che il significato sia simile a quello del mantra precedente
- ॐ नमः शिवाय –
giusto?
Quindi
ॐ नमो भगवते वासुदेवाय potrebbe significare più o meno “OM
SALUTO A VISHNU”, ma se vado a cercare la parola “namo” sul dizionario
rischio di non trovarla. Il motivo è semplice: in un certo senso “namo” non
esiste, perché è una maniera di scrivere e leggere “namaḥ”. Il motivo di questa trasformazione – aḥ che diventa
o – è puramente “estetico”:
-
Namaḥ śivāya, secondo
i grammatici, è “bello” perché l’aspirata aḥ si
lega bene alla ś “dura” di śiva;
-
Namaḥ bhagate vāsudevāya invece
è “brutto” perché l’aspirata aḥ non si
lega bene alla consonante “morbida” bha, per cui, senza
nessun altro motivo – per un sanscritista ignorante - che un “soggettivo” concetto
di bellezza, namaḥ si trasforma in namo.
“Bene!” - Penserà il sanscritista ignorante – “ho capito”: quando aḥ è seguito da una consonante “dura”
si scrive aḥ, quando è seguito da una consonante “morbida” si
scrive o". Facile! Ma anche no, perché la
stessa parola, namaḥ, diventa invece namas in namaste che
significa “SALUTO A TE”, e in questo caso più che di bellezza del suono
- l’aspirata aḥ non si lega male alla
consonante “dura” t - si tratta di bellezza della
grafia, giacché नमस्ते, namaste è
considerato più elegante di नमः ते, namaḥ te.
Namo, namas-, namaḥ sono
quindi esattamente la stessa parola con il medesimo significato e non è facile,
per il sanscritista ignorante, intuire le ragioni dell’uso di una o l’altra
forma.
Le regole di combinazione delle sillabe sanscrite –
regole del “sandhi” – sono per uno yogin ignorante come me – astruse e illogiche. La
prima regola asserisce che “due vocali successive devono essere sempre combinate”;
ad un erudito sanscritista sembrerà normale, ma a uno come me che si intende
solo di posture, sequenze, bandha e mantra risulta un po’ stravagante.
È come se invece di “gatta incinta” io dovessi
scrivere (e leggere) “gattencinta” tutto attaccato e invece di “cieli azzurri” “cielyazzurri”!
A dir poco stravagante.
Ma la situazione in sanscrito è decisamente più complessa
perché noi italiani abbiamo solo sette vocali (a, i, u, e, è, o e ò) e loro
quattordici, e le regole sono scritte in modo da rendere praticamente
impossibile riconoscere l’origine di certe parole composte.
Faccio un esempio eloquente:
Per le regole del sandhi a + a = ā,
e qui ci siamo, è come dire che 1+1=2;
Ma anche ā + a = ā e ā+ ā sono sempre
uguali ad ā, ovvero 2+1= 2 e 2+2=2!
Riportando questa regola cervellotica nella traduzione di
una parola – sempre che la mia ignoranza non mi porti a sbagliare - se io leggo in un testo
शिवानन्द = śivānanda, visto che शिव = Śiva,
शिवा = Śivā, आनन्द = Beatitudine e अनन्द= “Non-Gioia” non so se significa:
Śiva + ananda (Shiva +
triste);
Śiva + ānanda (Shiva + beatitudine);
Śivā + ānanda (la “Sposa di Shiva”, dea
delle sillabe, + beatitudine);
Oppure
Śivā + ananda (la “Sposa di Shiva”, dea
delle sillabe, + triste);
La verità – sempre che non abbia fatto errori grossolani – è che i
sanscritisti traducendo un brano “vanno a senso”, a intuito, fidandosi del loro
sapere, dell’esperienza e delle personali credenze, così che può capitare che
le traduzioni, che so…della Bhagavadgītā, fatte da un fervente
cattolico, da un ateo da uno śaiva o da un vaiṣṇava
siano differenti l’una dall’altra, anche in maniera sostanziale.
Le regole del sandhi,
se non si ha un amore sviscerato per la grammatica, appaiono come un sadico tentativo di complicare la vita di
noi poveri haṭḥayogin ignoranti, ma bisogna ammettere che, a volte, dare
un’occhiata alle illogiche regole del sandhi può riservare delle affascinanti
sorprese.
Guardiamo ad
esempio “4a REGOLA PRIMARIA DEL SANDHI”
-
La vocale
semplice “i”, sia lunga sia breve, quando è seguita da una vocale diversa si
trasforma in “y”;
-
La vocale
semplice “u”, sia lunga sia breve, quando è seguita da una vocale diversa si
trasforma in “v”;
-
La vocale semplice
“ṛ”, sia lunga sia breve, quando è seguita da una vocale diversa si trasforma
in “r”;
-
La vocale
semplice “ḷ”, sia lunga sia breve, quando è seguita da una vocale diversa si
trasforma in “l”.
Facciamo alcuni esempi:
योगि + आनन्द
= योग्यानन्द
yogi + ānanda = yogyānanda (beatitudine di uno
yogi);
गुरु + ईश
= गुर्वीश
guru + īśa = gurvīśa (signore dei guru);
मातृ +
इच्छा = मात्रिच्छा
mātṛ + icchā = mātricchā (volontà/desiderio della madre);
ऌ + उपदेश = लुपदेश
ḷ + upadeśa = lupadeśa
(l’insegnamento della lettera “ḷ”)
"SVĀDHIṢṬHĀNA CAKRA"
In questa 4a regola, bizzarra come lo sono – per me – tutte le regole del sandhi - fanno la loro comparsa le lettere “y”, “v”, “r” e “l”, che rivestono una certa importanza per lo Haṭḥayogin, e sono presenti nella forma यं yaṃ, रं raṃ, लं laṃ e वं vaṃ - ovvero comprensivi di “a” e puntino sopra la sillaba (reso nella traslitterazione IAST con “ṃ” – nella rappresentazione del cakra dei genitali, detto स्वाधिष्ठान svādhiṣṭhāna.
Cosa vuol dire svādhiṣṭhāna?
Adesso che abbiamo parlato delle prime regole del sandhi, possiamo azzardare una
traduzione tenendo conto che la parola potrebbe essere composta sia da स्वा svā + अधिष्ठान adhiṣṭhāna, sia da स्व sva + अधिष्ठान
adhiṣṭhāna.
अधिष्ठान adhiṣṭhāna è un termine tecnico dell’architettura
indiana e significa, “pilastro” o “base” riferiti ad un tempio o ad una
colonna; per allargamento semantico significa anche “seggio” o “dimora” –
soprattutto di un re o di un governatore – o “capitale di uno stato”,. Nel
buddhismo prende il significato di “iniziazione” considerata “la base”
dell’illuminazione.
Nel nostro caso - स्वाधिष्ठान
svādhiṣṭhāna - अधिष्ठान adhiṣṭhāna viene
tradotto di solito con “dimora”;
स्वा svā invece in questo caso viene di solito tradotto
come “suo”, “di lei” riferito ad una donna della propria casta o famiglia
ovvero, per lo Haṭḥayoga, a Kuṇḍalinī;
Per cui स्वाधिष्ठान svādhiṣṭhāna = स्वा svā + अधिष्ठान adhiṣṭhāna = “la dimora di Kuṇḍalinī”.
Per ciò che riguarda स्व sva può essere inteso come “proprio” o come “se
stesso” e viene usato indifferentemente nel senso di “mio”, “tuo”, “suo”,
“nostro”[1], ma nel Vedānta viene inteso nel senso
di “il sé”, “il proprio sé” per cui स्व sva + अधिष्ठान adhiṣṭhāna = स्वाधिष्ठान svādhiṣṭhāna = “la dimora del proprio sé” o “la
sua dimora” riferito al Sé.
In tutti e due casi sembra di capire che il चक्र cakra chiamato स्वाधिष्ठान svādhiṣṭhāna, situato nella zona dei genitali,
riveste un ruolo fondamentale nelle pratiche yogiche perchè è la "dimora" di una divinità o delproprio "essere".
Viene rappresentato come un fiore di loto a sei
petali.
Nel centro – pericarpo – sopra ad una mezzaluna il cui
colore varia a seconda delle diverse scuole – talvolta è bianca, altre argento,
altre verde - è inscritta la sillaba वं vaṃ che per lo yogin rappresenta:
-
L’elemento
Acqua;
-
Il gusto;
-
La capacità di
generare;
-
La lingua;
-
Gli organi
genitali.
-
Sui sei petali sono invece iscritte, dall’alto verso
il basso in senso orario, queste sillabe:
1. बं baṃ;
2. भं bhaṃ;
3. मं maṃ;
4. यं yaṃ;
5. रं raṃ;
6. लं laṃ.
Per lo yoga medioevale
queste sei sillabe e i petali in cui sono inscritte non sono semplicemente
lettere dell’alfabeto, ma hanno altri significati, la cui conoscenza è
indispensabile per la corretta pratica dello Haṭḥayoga.
La sillaba vaṃ e la
mezzaluna centrali rappresentano “l’energia creativa” – collegata allo sperma –
di una divinità definita ईशान īśāna
e identificabile con una forma “luminosa” di śiva.
Le sillabe inscritte nei petali rappresentano invece
delle “specializzazioni”, वृत्ति vṛtti,
dell’energia sessuale, che in genere sono descritte in questa maniera:
1. बं baṃ = “affetto”;
2. भं bhaṃ = “spietatezza”;
3. मं maṃ = “distruttività”;
4. यं yaṃ = “illusione”;
5. रं raṃ = “disprezzo”;
6. लं laṃ = “sospetto”.
Ogni sillaba inscritta nei petali dei sei cakra tradizionali
rappresenta una energia particolare – una शक्ति śakti – con valenze sia positive sia negative.
Nel “sanscrito degli Haṭḥayogin”
– diverso, almeno secondo la mia esperienza, dal sanscrito degli eruditi – queste
energie, considerate “forme della dea”, sono in totale 64 e vengono chiamate खेचरी khecarī o talvolta योगिनी yoginī.
Le 64 khecarī sono il
risultato delle modificazioni di 8 forme primarie della dea chiamate anch’esse khecarī
o मातृका mātṛkā
- “piccole madri” – che sono simboleggiate da quelle che, per lo yogin, sono la
prima determinazione delle sillabe dell’alfabeto, ovvero le sillabe:
अं aṃ आं āṃ
इं iṃ ईं īṃ उं uṃ ऊं ūṃ रं raṃ लं laṃ;
Le śakti di queste sillabe
sono chiamate con nomi diversi nelle diverse scuole, ma in genere vengono
identificate con le otto spose di otto divinità che rappresentano le otto
diverse direzioni dello spazio, dette, talvolta:
-
ईन्द्राणी īndrāṇī;
-
अग्निमातरा agnimātarā;
-
याम्यमात्री yāmyamātrī;
-
राक्षसी rākṣasī;
-
वारुणी vāruṇī;
-
वायवी vāyavī;
-
कुबेरा kuberā;
-
ईशानी īśānī;
Le khecarī rappresentano
l’energia inestinguibile delle sillabe dell’alfabeto che a loro volta
rappresentano, con le loro possibili combinazioni, l’insieme delle possibilità
di manifestazione nel mondo materiale e, nell’essere umano, l’insieme dei processi
fisici, psichici e mentali.
Nello Haṭḥayoga hanno
dimora in un cakra, tra virgolette, segreto, posto in prossimità del cakra
della fronte.
La loro essenza
discendendo nel cakra della gola alla nascita dell’individuo prende forma
udibile – materiale, e quindi soggetta a consunzione e dissolvimento - nel
cakra della gola, trasformandosi nei sedici suoni vocalici, da cui a loro volta
derivano le altre sillabe inscritte nei petali e nel pericarpo dei cakra “tradizionali”.
-
Le 16 vocali inscritte nel cakra della gola;
-
Le 5 sillabe seme inscritte nei pericarpi dei fiori di
loto più la forma udibile di ॐ inscritta nel cakra della fronte;
-
Le 12 consonanti inscritte nel cakra del cuore;
-
Le 10 consonanti inscritte nel cakra dell’ombelico, le
3 consonanti e le 3 semivocali inscritte nel cakra del genitali;
-
La semivocale e le 3 “sibilanti” inscritte nel cakra
del perineo;
-
Le 2 sillabe inscritte nei petali del cakra della fronte.
In tutto, tra sillabe
inudibili e sillabe udibili avremo quindi 8+16+6+12+10+6+4+2 =64 sillabe.
L’intero percorso dello Haṭḥayoga
è finalizzato all’estrazione dalle “64” sillabe dell’essenza delle sillabe –
intese come insieme delle possibilità di manifestazione - definita अमृत amṛta. In questo processo alchemico le sillabe
sanscrite si pongono come veicoli e insieme strumenti per visualizzare e
indirizzare le cosiddette energie sottili che vengono mosse grazie ad una serie
di azioni fisiche o per meglio dire “meccaniche” che vengono definite āsana, mudrā
e bandha. Azioni “meccaniche” che interessano in particolar modo la zona
genitale e la zona della gola, fino ad arrivare aduna sospensione delle
correnti energetiche, e quindi del suono/respiro “esteriore”, che coincide con
un azione fisica, chiamata khecarī mudrā, mediante la quale viene stimolato “fisicamente”
con la lingua, il cerchio delle khecarī.
Per arrivare a questo stato
occorre prima purificare l’insieme, Corpo-Parola-Mente con varie tecniche sia
esteriori – abluzioni, massaggi, posture – sia interiori.
Tra le tecniche interiori c’è anche la “purificazione”
dei bīja akṣara, ovvero delle sillabe inscritte nei petali dei cakra, in modo
da “sospendere” le loro vṛtti, ovvero “ripulirle” dalle modificazioni che le
sillabe subiscono “naturalmente” nella loro discesa verso la manifestazione
grossolana. Si tratta di tecniche tutto sommato semplici, basate sulla
recitazioni delle sillabe e sulla contemporanea visualizzazione dei petali e
del pericarpo dei cakra:
Ecco per esempio la tecnica di purificazione delle vṛtti
delle sillabe del cakra dei genitali, che, come avevamo visto sono:
-
बं baṃ = “affetto”;
-
भं bhaṃ = “spietatezza”;
-
मं maṃ = “distruttività”;
-
यं yaṃ = “illusione”;
-
रं raṃ = “disprezzo”;
-
लं laṃ = “sospetto”.
1) Si visualizza il fiore di
loto con i petali chiusi recitando il suono ॐ;
2) Si visualizza un petalo e la
volta, dall’alto in basso, in senso orario, recitando un “VAṂ” per ogni petalo,
si immagina di “dargli vita”, di “dargli energia”.
3) Recitando di nuovo il suono
ॐ si visualizza di nuovo il fiore
di loto, ma stavolta con i petali aperti, di colore rosso;
4) Si recita la sillaba
inscritta in ciascun petalo – sempre dall’alto in basso in senso orario, immaginando
che le sillabe siano di colore giallo (color fulmine è detto nei testi);
5) Si conclude recitando di
nuovo la sillaba ॐ e contemplando il loto,
rosso, con le sillabe gialle e la mezzaluna centrale bianco brillante.
[1] Per
esempio: “incolpano se stessi”
= “svaṃ nindanti”;
“Il re mandò suo
fratello a casa propria” = “rājā bhātaraṃ sva-gṛham
preṣayām-āsa.
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