“Giacché le più strette
furono riempite di fuoco non mescolato, e quelle seguenti di notte,
ma in esse si immette una parte di fiamma; nel mezzo di queste è la Dea che tutto governa”
(Parmenide, frammento 12)
In India la Dea è ovunque. È attraverso le sue labbra che
sussurriamo parole d’amore o lanciamo invettive. È con i suoi occhi che godiamo
dello spettacolo del tramonto e dell’orrore delle battaglie. Ed è sua la pelle
che freme al primo vento d’inverno o alla carezza dell’amante. Ogni tanto
decide di presentarsi, in carne ed ossa, sul palcoscenico della creazione e,
sotto i nostri sguardi attoniti, mette in scena lo spettacolo della Bellezza
Pura. E allora non ce n’è per nessuno: anche il dio più potente o il demone più
spaventoso, ridotti al ruolo di comparse, non possono far altro che mettersi da
parte. Sono tutte per Lei le luci della ribalta, e ogni suo gesto, ogni sua
parola, strappano applausi e grida di meraviglia al critico più esigente. Lei è
la Vita, ma uomini e dei si dimenticano spesso di onorarla.
C’è da capirli: impariamo davvero a rispettare
l’aria solo quando non c’è e, con le gambe che si piegano e la bocca
spalancata, ci struggiamo nell’inutile ricordo del respiro. Potrebbe andarsene,
la Dea, per farci provare l’angoscia dell’Assenza, ma per gioco, forse, o per
amore, preferisce mostrarsi affinché, tra un pianto ed un sorriso, ci si possa
rammentare di Lei e della nostra vera Natura.
La sua prima entrata in scena, come ci
raccontano i Purāṇa, è memorabile. In un colpo solo distrugge le
pie illusioni di Brahmā, il creatore, risveglia Kāma, dio del desiderio, e dona agli uomini la danza e la seduzione.
Siamo nel Sandhya il crepuscolo che
segue e precede i cicli cosmici e Brahmā, che allora aveva cinque teste
e non quattro come si dice adesso, sta meditando assieme ai suoi figli: i
veggenti, che avranno il compito di comprendere e testimoniare l’Universo, e i
dieci “guardiani delle direzioni”. È così che il Demiurgo vuole ri-creare il
mondo, sedendosi in quiete, in attesa che dalle profondità del suo essere
emergano le ordinate e rassicuranti architetture sognate nella lunga notte di
prima dell’inizio, ma Lei, la Dea, l’ordine e la tranquillità non riesce
proprio a digerirli e decide di apparire, all’improvviso, nel quadro perfetto
che sta prendendo forma. I Ṛṣi e i Guardiani si alzano stupiti, chiedendosi l’un l’altro chi sia
la nuova venuta e Brahmā, svegliato dal mormorio, non crede ai suoi
occhi: Uṣā, così si
chiama la Dea nella forma della luce dell’Alba, ha il corpo flessuoso come
quello di un serpente. Le gambe sono lunghe, snelle e forti come la lancia di Skanda,
i seni sono freschi e pesanti insieme e i capezzoli dolci e morbidi paiono loti
in boccio. I suoi capelli sono neri come l'ala del corvo e la curva delle
sopracciglia, degna dell’arco di Kāma, accarezza due occhi scuri come la notte che mutano luce ad ogni
istante, rendendola ora tigre ed ora gazzella. Brahmā non capisce. Si reimmerge nella meditazione, in
cerca di un perché ed ecco arrivare, un giovane bellissimo con arco e frecce
fiorite. È Kāma in persona, l’Antico dei Tempi, dimentico di
sé dopo la lunga notte del Cosmo. -
“Chi sono, padre?” - chiede il nuovo
arrivato, - “Sei
il Desiderio” - risponde Brahmā - “il più potente dei Deva. Le
tue frecce hanno il dono di portare alla follia uomini, demoni e dei.
Invisibile, puoi colpire a tuo piacimento, con i tuoi dardi, chiunque vorrai e
nessuno potrà resisterti” - Kāma, non se lo fa ripetere due volte. Afferra l'arco e colpisce, ad uno ad
uno, Brahmā, i Ṛṣi e la
Dea. Fu così che nacque la Danza. Fu così che nacque la seduzione. Uṣā comincia a ballare e mille e mille perle di
sudore, al primo raggio di sole, sbocciano sulle sua pelle dorata. Batte il
tempo con i piedi e le mani dopo aver cercato il vento, le coprono gli occhi a
fingere vergogna, poi si intrecciano in fiori e ghirlande, e il suo sguardo di
tigre fa tremare Brahmā e i suoi figli. Ma è un attimo e subito,
gazzella, li invita a seguirli in una danza che si vorrebbe infinita. È la Dea,
Uṣā: nessuno può resisterle. In preda all’eccitazione, con le
guance arrossate e gli occhi stravolti il Demiurgo, ansimando, si alza. Ma una
risata, beffarda, lo raggela.
-"Ma
che stai facendo Brahmuccio mio? ... Non è forse detto nei Veda che tua sorella
sarà come tua madre e tua figlia come tua sorella? " È Śiva, lo yogin perfetto che, non
visto, svolazzando nella posizione del loto è arrivato sul luogo dello
spettacolo. Brahmā è turbato. Riesce
a reprimere l'eccitazione, ma lo sforzo sovrumano (ovvio...è un dio!) si
trasforma in un fiume di sudore nero e denso che scende sulla terra e si
trasforma nelle "anime dei morti" e di “coloro che si cibano delle
offerte dei morti”. È così che nasce la catena delle rinascite. È così che il
mondo può essere ri-creato: non dalle ordinate architetture del Demiurgo, ma
grazie al caso, alla Dea e al risveglio del desiderio.
Compresa la lezione della Dea Brahmā ripiombò nella sua
estasi creativa. Dalle acque scure sorsero i Naga, che avrebbero
insegnato lo haṭhayoga
agli uomini, dal vento i Gandharva, musici divini, e le Apsaras,
danzatrici e maestre delle Arti di Amore. E poi i popoli del Fuoco, della Terra
e dello Spazio. Brahmā affidò ad uno dei suoi figli, Indra, la
Città degli dei, e gli dette in moglie Indrāṇī, la
bellissima regina degli Āsura. Tutto
ormai era pronto per iniziare un nuovo ciclo cosmico. Anzi quasi: per
completare la ri-creazione dell’Universo i signori della Nascita, della Vita e
del Tempo (Brahmā, Viṣṇu e Śiva)
devono esercitare, assieme, i tre poteri divini, Creazione, Protezione e
Dissoluzione, e Śiva, il sublime asceta, convinto di bastare a se
stesso, non voleva proprio saperne di trovare moglie e, come dicono le
scritture, “senza la sua Śakti anche il
dio più grande è privo di potenza creativa”.
Per dar vita ad un nuovo ciclo cosmico non
sarebbero bastati l’impegno di Brahmā e della sua consorte, Sarasvatī,
né la gioia che Viṣṇu e Lakṣmī, nata ridendo dall’Oceano di latte, riversavano su tutte le
creature.
Era necessario che il Naṭarāja (così viene chiamato il Dio col tridente, Naṭarāja, Re della danza), unito alla sua sposa, dispiegasse il potere di
dissoluzione e la conoscenza che ne deriva. La Natura è come un orchestra di
musici eccelsi che, in attesa del maestro suonano ognuno per suo conto.
Le note, api impazzite si rincorrono in cielo,
sbattono l’un l’altra e rimpiombano a terra, a litigarsi fiori inesistenti
mutando il volo in un goffo saltellare. Improvviso il silenzio. Non c’è bisogno
di guardare per sapere che “lui” è arrivato. Per tre volte la bacchetta
colpisce il leggio, poi si alza e comincia a disegnare, nel vuoto, passi e
tempi di una danza, antica e inaspettata insieme. Allora il brusio si fa
bellezza, e nel vario dispiegarsi delle energie, si indovina una legge
dimenticata ma non certo ignota: l’assonanza dei cuori e delle menti. Chi è
stato innamorato anche solo una volta nella vita, sa di che si tratta. La Natura dell’Universo, e dell’essere umano,
è Ānanda, beatitudine suprema, ma per svelarla ci vuole un maestro che
accordi gli strumenti e dia i tempi e i modi dell’Opera. È Amore il Maestro,
l’amore che nulla pretende.
Per i Veda la Creazione si può comprendere
grazie a due leggi matematiche accessibili anche ai bambini, la serie del Matra Meru o misura del Monte Meru, da
noi serie di Fibonacci (0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13…) e la serie del Vastu Mandala (mandala dell’universo) o
della scacchiera, da noi serie della Morula (2, 4, 8, 16, 32, 64…).
Amore si trasmette con la legge del Due.
Uno non può niente, Due è l’inizio della vita.
La paura di sciogliersi nell’altro porta a creare conflitti, a identificare l’oggetto
amato nel nemico. Se nel cristianesimo si dice che il fondamento della società
è la famiglia e, ai nostri tempi si ritiene sia invece l’individuo, per la
Natura è la coppia.
La vera potenza dell’Amore si esprime quando
ci si annulla l’un l’altro. Quando si riesce ad annichilire l’ego in un gruppo,
poi, la potenza diviene inimmaginabile, sia nel bene che nel male. Il
raggiungimento dello Stato Naturale, la Liberazione di cui parla il Tantra, non
è roba difficile. Basta darsi all’altro (agli altri…) amando di un amore che
nulla pretende. Ma come si fa in una società dove ci educano alla realizzazione
individuale? Per non sentirsi schiacciati si schiacciano gli altri, per non
sentirsi annullati si tenta di annullare gli altri.
Il contrario dell’amore non è l’odio, ma la
Paura. Paura di donarsi, paura di perdere quello che perderemo comunque prima o
poi. Paura di vivere. Possibile che Śiva,
il Distruttore delle tre Città, avesse paura? Possibile che proprio lui, il Naṭarāja, avvezzo a intronare l’Universo con la sua danza selvaggia,
tremasse all’idea di perdere l’oggetto del suo amore?
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