Testo in sanscrito e traduzione:
समाधिपादः
samādhi-pādaḥ
Samādhi = “mettere insieme, unire, combinare”, nel Mahābhārata è usato nel senso di “trance yogica” [1].
Pāda = “piede, gamba, sezione, un quarto, la quarta parte di…”.
-
Libro del samādhi [dello yoga darśana di Patañjali].
अथ योगानुशासनम् ॥१॥
atha yoga-anuśāsanam II1II
atha yoga-anuśāsanam II1II
Atha = “adesso, quindi, certamente”.
Anuśāsanam = “istruzioni,
guida pratica”.
1.
Adesso le istruzioni per la
pratica dello Yoga.
योगश्चित्तवृत्तिनिरोधः ॥२॥
yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ ॥2॥
yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ ॥2॥
Vṛtti[4] = “attività, movimento, modo di
essere, comportamento, predisposizione ad un determinato comportamento,”.
Nirodhaḥ = “estinzione, confinamento, imprigionamento, controllo, soppressione,
annichilimento”.
2.
Lo Yoga è l’arresto delle
modificazioni della mente.
तदा द्रष्टुः स्वरूपेऽवस्थानम् ॥३॥
tadā draṣṭuḥ svarūpe-'vasthānam ॥3॥
tadā draṣṭuḥ svarūpe-'vasthānam ॥3॥
Tadā = “poi, in seguito”.
Svarūpe = “nella sua forma originaria”.
Avasthānam = “stare, risiedere, prendere dimora”.
3.
Una volta arrestate le vṛtti il vero Sé può dimorare nella sua
vera natura.
वृत्ति सारूप्यमितरत्र ॥४॥
vṛtti sārūpyam-itaratra ॥4॥
vṛtti sārūpyam-itaratra ॥4॥
Vṛtti = “attività, movimento, modo di essere, comportamento, predisposizione ad
un determinato comportamento”.
Sārūpyam = “forma simile”.
Itaratra = “altrimenti”.
4.
Se ciò non accade ci
identificheremo in una forma simile al Sé creata dalle vṛtti.
वृत्तयः पञ्चतय्यः क्लिष्टाक्लिष्टाः ॥५॥
vṛttayaḥ pañcatayyaḥ kliṣṭākliṣṭāḥ ॥5॥
vṛttayaḥ pañcatayyaḥ kliṣṭākliṣṭāḥ ॥5॥
Vṛttayaḥ = “le vṛtti”
Pañcatayyaḥ = “quintuple, che hanno cinque parti o membra”.
Kliṣṭā = “penose, collegate al dolore e alla sofferenza”.
Akliṣṭāḥ = “libere dai problemi, indisturbate”.
5.
Ci sono cinque tipi di vṛtti, alcune
penose ed altre non penose.
प्रमाण विपर्यय विकल्प निद्रा स्मृतयः ॥६॥
pramāṇa viparyaya vikalpa nidrā smṛtayaḥ ॥6॥
pramāṇa viparyaya vikalpa nidrā smṛtayaḥ ॥6॥
Pramāṇa = “giusta misura (in musica), passo di danza in armonia con la musica e il
canto, corretta conoscenza[6]”.
Vikalpa = “Immaginazione, fantasia, falsa nozione”.
Smṛti[9] = “memoria, rimembranza”.
6. Giusta conoscenza, errata conoscenza, immaginazione, sonno e memoria.
प्रत्यक्षानुमानाअगमाः प्रमाणानि ॥७॥
pratyakṣa-anumāna-āgamāḥ pramāṇāni ॥7॥
pratyakṣa-anumāna-āgamāḥ pramāṇāni ॥7॥
Pratyakṣa = “percezione diretta, evidenza visiva”.
Anumāna = “inferenza, considerazione, riflessione”.
Pramāṇāni = plurale accusativo, nominativo e vocativo di pramāṇa, retta conoscenza”.
7.
Per retta conoscenza si intende ciò che
proviene dall’esperienza diretta, dall’inferenza e dai testi sacri.
विपर्ययो मिथ्याज्ञानमतद्रूप प्रतिष्ठम्॥८॥
viparyayo mithyā-jñānam-atadrūpa pratiṣṭham ॥8॥
viparyayo mithyā-jñānam-atadrūpa pratiṣṭham ॥8॥
Viparyayo = vedi vipayayau, nominativo
duale di viparyaya, “opposto di,
trasposizione, cambiamento, alterazione, ordine invertito o successione”.
Mithyā = “scorretto, sbagliato, improprio, falso”.
Jñānam = “conoscenza”.
Atadrūpa (atad, “non quello” + rūpa, “forma”) = “non corrispondente alla reale forma
di un fenomeno”[11].
Pratiṣṭham = “sostegno, centro o base di ogni cosa”
8.
Viparyaya è l’erronea conoscenza di
un oggetto basata su una forma non corrispondente alla sua reale natura.
शब्दज्ञानानुपाती वस्तुशून्यो विकल्पः ॥९॥
śabda-jñāna-anupātī vastu-śūnyo vikalpaḥ ॥9॥
śabda-jñāna-anupātī vastu-śūnyo vikalpaḥ ॥9॥
Śabda = “parola, lingua, linguaggio, tradizione orale,
Verbo”.
Anupātī
= “logica conseguenza,
risultato”.
Vastu = “ogni oggetto e fenomeno reale, la cosa giusta,
la realtà percepita”.
Śūnya
= “vuoto, assente, irreale, senza
senso”.
Vikalpa = “Immaginazione, fantasia, falsa nozione”.
9.
Vikalpa è la conoscenza derivante
da parole prive di rapporto con fenomeni e oggetti reali.
अभावप्रत्ययाअलम्बना तमोवृत्तिर्निद्र ॥१०॥
abhāva-pratyaya-ālambanā tamo-vṛttir-nidra ॥10॥
abhāva-pratyaya-ālambanā tamo-vṛttir-nidra ॥10॥
Tamo
vṛttir (tamo, “oscurità inerzia” + vṛtti,
attività, movimento”) = sinonimo di mūḍha[15]
vṛtti, termine che indica gli stati
della mente derivanti da tamas guna,
ovvero “incuria, sonnolenza, pigrizia, ottusità”[16].
Nidra = “sonno, sonno profondo, sonnolenza, pigrizia”.
10.
La vṛtti del sonno si fonda
sull’assenza di idee, concetti e nozioni.
अनुभूतविषयासंप्रमोषः स्मृतिः ॥११॥
anu-bhūta-viṣaya-asaṁpramoṣaḥ smṛtiḥ ॥11॥
anu-bhūta-viṣaya-asaṁpramoṣaḥ smṛtiḥ ॥11॥
Anubhūta = “concepito, compreso, frutto di apprendimento e/o percezione”.
Viṣaya = “ogni fenomeno che sia oggetto della percezione”.
Asaṁpramoṣa = “non permettere che qualcosa sia portato fuori, non lasciar uscire, non
lasciar cadere”.
Smṛti = “memoria, rimembranza”.
11 La vṛtti della memoria si
basa su contenuti psichici innescati da esperienze non rimosse.
COMMENTO 1.1- 4: IL FLUSSO MENTALE
1.
Adesso le istruzioni per la pratica dello Yoga.
2.
Lo Yoga è l’arresto delle modificazioni della
mente.
3.
Una volta arrestate le vṛtti il vero Sé può
dimorare nella sua vera natura.
4.
Se ciò non accade ci identificheremo in una forma
simile al Sé creata dalle vṛtti.
“Yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ”,
il secondo aforisma degli Yoga Sūtra, è probabilmente il verso più citato
della storia dello yoga. La traduzione “lo Yoga è l’arresto delle
modificazioni della mente”, in linea con la maggior parte delle interpretazioni, non è in grado di rendere la complessità dell’originale. Vṛtti, tradotto solitamente con
“modificazioni” nella forma
equivalente vṛtta nel Ṛg veda assume il significato di
“ruotato, messo in moto, fatto girare come una ruota” mentre nel Śatapatha Brāhmaṇa viene utilizzato nel
senso di “rotondo, arrotondato, circolare”, per cui “citta vṛtti” potrebbe essere tranquillamente tradotto come “vortici
della mente” o “movimenti circolari della mente”. Probabilmente Patañjali si riferisce a una serie di processi mentali che si innescano, in
maniera autonoma, in determinate condizioni, allontanando l’essere umano dalla
sua “vera natura” (svarūpe) che sarebbe quella “di colui che tutto vede” (draṣṭuḥ), il “veggente”, ciò che noi definiamo “il vero
Sé”. Questi processi determinano cinque diverse
condizioni della mente (dalle quali, a loro volta sono determinati dando vita
ad un circolo vizioso) chiamate nel buddhismo delle origini cittabhūmi, o “territori della mente”:
1. Kṣipta, “confusione”.
2. Mūḍha, “ottusità, stupidità”.
3. Viksipta, “dispersione, agitazione”.
4. Ekagra, “attenzione concentrata”.
5. Niruddha, “controllo”.
Se teniamo conto degli insegnamenti del buddhismo, Yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ, potrebbe
significare che lo yogin deve mantenere la mente nella condizione di controllo
(niruddha) dei vortici del pensiero.
Una condizione che favorirebbe la percezione (e
l’utilizzazione) di un flusso di energia chiamato citta-saṃtāna (dove saṃtāna
significa “serie di eventi in successione, continuità, flusso ininterrotto”). Continuando la lettura degli “aforismi dello yoga” scopriremo in 3.9[17] e in 3.10[18] che per Patañjali nirodha è “un flusso tranquillo”.
Ciò significa che potremmo considerare cittavṛtti -nirodha un sinonimo di citta-saṃtāna, per cui la traduzione del
secondo versetto potrebbe essere questa:
“Lo
yoga è il flusso mentale”.
Tecnicamente citta-saṃtāna
è "il flusso, consequenziale, degli istanti di consapevolezza
sperimentati dal praticante". Per fare un esempio è come se facessimo
una serie di sogni nei quali, ogni volta, la storia comincia dal punto in cui
si era interrotta nel sogno precedente. Anche se ciascun sogno avvenisse a
distanza di mesi o anni dal precedente, avremmo la sensazione di un
"continuum", come un film che, nonostante sia interrotto dagli spot
pubblicitari, mantiene la propria coerenza narrativa. Citta-saṃtāna, inteso
come sequenza di istanti di pura consapevolezza, è ciò che ci permette
una continuità coscienziale sia durante la vita terrena (una specie di centro
di gravità permanente), sia tra una vita all'altra, quasi fosse la fiamma che
viene passata da una candela all'altra. Se si tiene
conto dell’analogia tra
cittavṛtti-nirodha e citta-saṃtāna i
primi tre versetti diventano un invito a percepire (e utilizzare) il “flusso
mentale” nel quale riconoscere il “vero Sé”. Cosa che è resa difficile dal
potere creativo della mente:
“Vṛtti
sārūpyam-itaratra”, ammonisce Patañjali, “altrimenti ci
identificheremo in una forma simile al Sé creata dalle vṛtti”.
Il potere della mente, secondo lo yoga, è immenso.
Lo yogin realizzato può creare interi mondi, ma l’essere umano inconsapevole di
quel potere diviene succube. I vortici della mente dipingono una forma fittizia
del Sé, un feticcio di “io” formato delle impressioni causate dalla cultura,
dalle emozioni e dalle azioni che ne scaturiscono. Di solito chiamiamo il
feticcio “personalità” e lo identifichiamo con la Persona umana. Solo coloro
che hanno accesso al “flusso mentale” diventano consapevoli del potere creativo
della mente.
Nel buddhismo
citta-saṃtāna è la base di ciò che viene
talvolta chiamato "tulpa", ovvero la capacità, magica, di
creare immagini, oggetti e fenomeni con il potere della mente. Buddha
riesce a creare un corpo mentale, manomāyakāya[19], e
a moltiplicarlo fino a riempire il cielo di infinite forme a sua somiglianza[20] proprio grazie all'utilizzazione del “flusso”.
Nel Patisambhidamagga
(Canone Pāli) e nel Visuddhimagga
di Buddhaghoṣa, si afferma che gli yogin, usando citta-saṃtāna possono creare un corpo
mentale con il quale viaggiare nei regni terreni e nei regni celesti. Questa
capacità di usare il flusso mentale viene definita nell'Abhidharmakośa
di Vasubandhu "nirmita", mentre Asanga nel Bodhisattvabhūmi la chiama "nirmāṇa"
e la definisce "un'illusione magica e fondamentalmente, qualcosa senza una
base materiale".
In tempi moderni
Alexandra David-Neel[21] (definisce i tulpa "formazioni
magiche generate da una potente concentrazione di pensiero" e racconta
di essere stata testimone di fenomeni paranormali legati al citta-saṃtāna
nel Tibet del XX secolo.
Secondo David-Néel
"un Bodhisattva completo è in grado
di eseguire dieci tipi di creazioni magiche." Il potere di produrre
formazioni magiche durature che abbiano effetti nella realtà materiale non
apparterrebbe solo ai grandi illuminati: ogni essere vivente sarebbe in grado
di generare delle "forme pensiero" il cui grado di "realtà"
dipenderebbe solo dai diversi livelli di concentrazione del praticante.
Alexandra David-Néel
scrive che i tulpa avrebbero la
capacità di sviluppare una propria mente:
"Una volta che il tulpa è dotato di sufficiente vitalità per essere
capace di recitare la parte di un essere reale, tende a liberarsi dal controllo
del suo creatore. Gli occultisti tibetani, accade quasi meccanicamente, proprio
come il bambino, quando il suo corpo è completato e capace di vivere a parte,
lascia il grembo materno”[22].
La studiosa franco-belga
sosteneva di aver creato personalmente un tulpa
che aveva la forma di un "frate allegro". Il frate in seguito avrebbe
sviluppato una vita propria e dovette essere distrutto.
"Forse"
- scrive ancora David-Néel - "ho creato la mia allucinazione, ma anche
gli altri potevano percepirla”.
Nel loro insieme i
versetti 1.1-4 descrivono il fine dello yoga, ovvero la percezione e
l’utilizzazione del “flusso mentale”, che è, insieme, un’energia e un luogo, il
luogo in cui il “veggente riposa in se stesso”. Accedere a questo luogo, dimora
naturale dell’essere, è reso difficile dalle oscillazioni della mente, ovvero
dal suo passare inconsapevolmente attraverso cinque diversi stati o condizioni
(confusione, ottusità ecc.) che sono “innescati” da una serie di processi
mentali definiti vṛtti che producono, come effetto collaterale, una specie di
“feticcio del Sé”, nel quale l’essere umano tende ad identificarsi.
COMMENTO 1. 5-11: LE VṚTTI
5.
Ci sono cinque tipi di vṛtti, alcune penose ed
altre non penose.
6.
Giusta conoscenza, errata conoscenza,
immaginazione, sonno e memoria.
7.
Per retta conoscenza si intende ciò che proviene
dall’esperienza diretta, dall’inferenza e dai testi sacri.
8.
Viparyaya è l’erronea conoscenza di un oggetto
basata su una forma non corrispondente alla sua reale natura.
9.
Vikalpa è la conoscenza derivante da parole prive
di rapporto con fenomeni e oggetti reali.
10.
La vṛtti del sonno si fonda sull’assenza di idee,
concetti e nozioni.
11.
La vṛtti della memoria si basa su contenuti
psichici innescati da esperienze non rimosse.
Nei versetti 1.5-11 Patañjali descrive le vṛtti,
i “vortici delle mente” che impediscono l’esperienza del flusso mentale. Sono
cinque e, per loro natura, non sono né positive né negative (kliṣṭākliṣṭāḥ). La prima è pramāṇa, che noi traduciamo con retta
conoscenza, ma in realtà è una parola tratta dal gergo della danza e della
musica. Significa “giusta misura”, ma nella filosofia indiana rappresenta
l’insieme degli strumenti di conoscenza a disposizione del praticante,
strumenti che nel Vedānta sono sei:
1.
Pratyakṣa (“percezione sensoriale”).
2.
Anumāna (“inferenza”).
3.
Upamāna (“analogia”).
5.
Anupalabdhi o abhāva-pratyakṣa (“non
percezione ovvero prova al negativo, es. non percepisco l’aria ma in mancanza
di aria soffoco quindi non percepisco l’aria ma la sua assenza”),
Nel sāṃkhya,
la scuola filosofica a cui Patañjali sembra riferirsi in questo caso, gli strumenti di pramāṇa si riducono a tre:
1.
Pratyakṣa (“percezione sensoriale”).
2.
Anumāna (“inferenza”).
Patañjali,
in 1.7, riproponendo i tre strumenti di conoscenza (pramāṇāni) del sāṃkhya usa in luogo di śabda la parola āgama, scelta che può dar luogo a considerazioni assai
interessanti.
Āgama, che spesso viene tradotto con “scritture rivelate,
testimonianza, parola degna di fede”, in sanscrito significa " sia
“teoria” che “strada d’accesso” e indica un gruppo di testi conosciuti
solitamente come Tantra. Esistono āgama buddhisti, jainisti e,
soprattutto, induisti.
Ogni āgama è
diviso in quattro parti, o pāda,
esattamente come gli Yoga Sūtra:
1.
Jñāna Pāda (o Vidya Pāda).
a. Ovvero le dottrine e la conoscenza filosofica e spirituale.
2.
Yoga Pāda. Ovvero gli esercizi fisici (posizioni, sequenze,
pratiche respiratorie...) e mentali (meditazione, visualizzazione,
concentrazione).
3.
Kriyā Pāda. Ovvero le regole per i rituali, tecniche di
costruzione e consacrazione di templi, statue e icone, rituali di iniziazioni
dei discepoli, tecniche di percezione e utilizzazione delle “energie sottili”.
4.
Caryā Pāda. Ovvero le tecniche di insegnamento, per l'osservanza
dei riti religiosi ecc.
Per prima cosa, qualunque fosse l’intenzione
dell’autore, appare evidente che la struttura degli Yoga Sūtra riprende quella degli āgama.
In secondo luogo essendo la conoscenza desunta
dagli āgama (scritture tradizionali)
una vṛtti, ne possiamo dedurre che i “vortici
della mente” non sono ostacoli da abbattere, né limiti alla pratica, ma
strumenti di conoscenza ordinaria che possono, tramite processi che sfuggono al
controllo cosciente, gettare la mente in uno degli stati che abbiamo definito cittabhūmi, ovvero kṣipta (“confusione”), mūḍha
(“ottusità, stupidità”), viksipta
(dispersione, agitazione”), ekagra
(“attenzione concentrata”) e niruddha
(controllo). Nella condizione di coscienza ordinaria, pur credendoci attori,
siamo agiti dai processi mentali, siamo cioè figuranti mossi sulla scena di un
nostro personale “teatrino della memoria” (citta
si può tradurre anche con “memoria”) dal “falsembiante” del Sé costruito dalle vṛtti[23]. Solo l’esperienza, ripetuta, dei samādhi, trasformando in maniera definitiva
la nostra mente, ci darà la possibilità di accedere al “flusso mentale”, il
luogo in cui “il veggente riposa in se stesso”[24].
Mantenendo la mente nella condizione detta Niruddha ovvero di “controllo” (o di
“ascolto senza scelta”) ognuna delle cinque vṛtti
svela il suo aspetto operativo:
Vikalpa
(“Immaginazione, fantasia”), si
trasforma in quel “pensiero creativo che permette al Buddha di manifestarsi come
corpo mentale, o manomayakoṣa.
Nidrā (“sonno profondo, sonnolenza”), proprio per
l’assenza, apparente, di oggetti di percezione, apre la porta alla conoscenza, jñāna[26].
La consapevolezza della “errata conoscenza”, come
abbiamo tradotto viparyaya può condurre
alla discriminazione (viveka), avvero
alla capacità di distinguere “la corda dal serpente”, ovvero il reale
dall’irreale, il permanente dall’impermanente[27].
Infine la memoria individuale (smṛti = “rimembranza”) formata dai contenuti psichici non risolti,
viene sostituita dalla memoria universale (smṛti
= “scritture non rivelate”), ovvero gli insegnamenti e le storie di dei,
demoni ed eroi.
I versetti 1.5-11 descrivono dettagliatamente le
cinque vṛtti chiarendo che si tratta
di meri strumenti di conoscenza (retta conoscenza, errata conoscenza, sonno,
immaginazione, memoria). La non consapevolezza non dipende in ultima analisi
dalle vṛtti, ma dagli effetti che
hanno su una mente non “centrata” (non purificata).
[1]
Samādhi, talvolta usato come sinonimo di dhyāna o
jhāna nel buddhismo è l’esperienza che apre le porte a prajñā, la condizione di
conoscenza intuitiva che permette, a sua volta, di accedere alla bodhi, o
Risveglio spirituale. Il Canone Pāli descrive otto stati progressivi di jhāna:
quattro meditazioni con forma (rūpa) e quattro meditazioni senza forma (arūpa
jhāna). Una nona forma è Nirodha-Samapatti. Come vedremo sia i termini che gli
insegnamenti ad essi relativi, sono simili o identici a quelli che incontriamo
in questo testo.
Secondo molti commentatori, i quattro rupa jhana sono
un contributo originale del Buddha, ovvero non appartenente alla tradizione
vedica. Gli arupa jhana invece erano incorporati nelle tradizioni ascetiche non
buddiste.
[2]
Il significato letterale di yoga è “uso, utilizzazione, modo di impiego” (vedi Ṛg
veda). Nel Mahābhārata indica “l’atto di equipaggiare un esercito, di metterlo
in condizione di combattere”.
[3]
Per comprendere appieno il significato della parola citta e quindi del secondo,
famosissimo, versetto del samādhi-pāda occorre far riferimento agli
insegnamenti del primo buddhismo. Per spiegare l'unità della mente i maestri
buddisti descrivevano la mente come un terreno o base che chiamavano Cittabhūmi,
diviso in cinque parti, ovvero cinque diversi possibili stati della mente:
1. Kṣipta,
“confusione”.
2. Mūḍha,
“ottusità, stupidità”.
3. Viksipta,
“dispersione, agitazione”.
4. Ekagra,
“attenzione concentrata”.
5. Niruddha,
“controllo”.
Ognuno dei cinque stati è legato ad una delle cinque vr̥tti
di cui parla Patañjali, ed ogni vr̥tti è legata ad un particolare stato dei
guna (tamas, rajas, sattva).
[4]
Nella forma equivalente vr̥tta nel Rg veda assume
il significato di “ruotato, messo in moto, fatto girare come una ruota” mentre
nel Śatapatha Brāhmaṇa viene utilizzato
nel senso di “rotondo, arrotondato, circolare”, per cui “citta-vr̥tti-nirodhaḥ”
potrebbe essere tranquillamente tradotto come “estinzione dei vortici della
mente” o “interruzioni delle rotazioni della mente”.
[5] In Bhāgavata Purāṇa
5.9.12, draṣṭuḥ viene inteso come “Colui che è il veggente di
ogni cosa”, il vero Sé: “kartāsya sargādiṣu yo na badhyate na hanyate
deha-gato ’pi daihikaiḥ draṣṭur na dṛg yasya guṇair vidūṣyate tasmai namo
’sakta-vivikta-sākṣiṇe”
.
[6]
Nel Vedanta la parola pramāṇa
indica i sei mezzi per ottenere la giusta conoscenza, ovvero:
1.
Pratyakṣa
(“percezione sensoriale”),
2.
Anumāna
(“inferenza”),
3.
Upamāna
(“analogia”),
5.
Anupalabdhi-o
abhāva-pratyakṣa (“non percezione ovvero prova al negativo, es. non percepisco
l’aria ma in mancanza di aria soffoco quindi non percepisco l’aria ma la sua
assenza”),
6.
Arthāpatti
(“inferenza circostanziale”).
Nel sāṃkhya i mezzi di conoscenza (Pramāṇa) si
riducono a tre:
1.
Pratyakṣa
(“percezione sensoriale”),
2.
Anumāna
(“inferenza”),
3.
Śabda-o
āpta-vacana
(“parola autorevole, verbo, rivelazione”).
[7]
In astronomia “rivoluzione, girare attorno”.
[8]
In Śārṅgadhara-Paddhati la parola indica “lo stato del fiore nell’atto di
sbocciare”.
[9]
Con la parola Smr̥ti si intende anche l’insieme dei testi non rivelati,
distinti dalla śruti, che raccoglie gli insegnamenti direttamente ascoltati o rivelati
ai ṛṣi. La smṛti- include i sei vedāṅga, il libro della legge di Manu, gli
itihāsa (ovvero la letteratura epica come il Mahābhārata-e il Rāmāyaṇa), i
purana ecc.
[10]
Āgama, che talvolta viene tradotto con “testimonianza”
o con “parola degna di fede” in sanscrito significa " sia “teoria” che
“strada d’accesso” e indica un gruppo di testi conosciuti solitamente come
Tantra. Esistono āgama buddhisti, jainisti e, soprattutto, induisti.
Ogni āgama è diviso in quattro parti:
1)
Jñāna
Pāda (o Vidya Pāda).
Ovvero
le dottrine e la conoscenza filosofica e spirituale.
2)
Yoga Pāda. Ovvero gli esercizi fisici
(posizioni, sequenze, pratiche respiratorie...) e mentali (meditazione,
visualizzazione, concentrazione).
3)
Kriyā Pāda. Ovvero le regole per i rituali,
tecniche di costruzione e consacrazione di templi, statue e icone, rituali di
iniziazioni dei discepoli.
4)
Caryā
Pāda. Ovvero le tecniche di insegnamento, per l'osservanza dei riti religiosi
ecc.
[11]
Per esempio atad-guṇa in retorica, significa “uso di termini che non descrivono
la natura essenziale di un oggetto”, mentre atad-arham significa
“immeritatamente, ingiustamente”.
[12] Abhāva nel vedanta è uno dei sei strumenti del
pramāṇa e consiste nella cosiddetta prova al negativo: “se non ci sono topi
significa che devono esserci dei gatti”.
[13]
Nel sāṃkhya, pratyaya significa coscienza, comprensione, intelligenza,
intelletto ed è considerato sinonimo di buddhi. Per i buddhisti (vedi Sarvadarśana-Saṃgraha),
significa “nozione fondamentale, idea, archetipo”. In letteratura pratyaya è “colui che si occupa del
fuoco sacro nella propria dimora”.
[14]
Nel Sāhitya-Darpaṇa ālambana indica “la naturale connessione che lega una
sensazione allo stimolo che l’ha prodotta”. Per i buddhisti indica invece i
cinque attributi degli oggetti percepiti dai cinque sensi, cioè forma, suono,
odore, gusto e tatto.
[15]
Mūḍha significa “sciocco, ottenebrato, disorientato”.
[16]
Da tamas guna proviene mūḍha vr̥tti, o vr̥tti della pigrizia e dall’ottusità. Da
rajas guna proviene ghora vr̥tti (ghora = “terribile, violento, veemente”) o vr̥tti
dell’agitazione e dell’eccitazione. Da sattva guna proviene śānta vr̥tti, o
vr̥tti della quiete e della tranquillità.
[17] Vyutthāna-nirodha-saṁskārayoḥ
abhibhava-prādurbhāvau nirodhakṣaṇa cittānvayo nirodha-pariṇāmaḥ ॥9॥
[18] Tasya praśānta-vāhitā saṁskārat ॥10॥
[19]
Vedi Samaññaphala Sutta.
[20]
Vedi Divyāvadāna.
[21]
Vedi: David-Neel, Alexandra; DʼArsonval, A. 2000. “Magic and Mystery in Tibet”. Escondido, California: Book Tree.
[22]
Vedi testo citato.
[23]
Vedi 1.4: “vṛtti
sārūpyam-itaratra”.
[24]
Vedi 1.3: “tadā draṣṭuḥ
svarūpe ‘vasthānam”.
[25]
“Ṛtaṁbharā tatra prajñā”.
[26]
Vedi 1.38: “svapna-nidrā
jñāna-ālambanam vā”.
[27] Vedi 2.26: “viveka-khyātir-aviplavā hānopāyaḥ”.
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