Qualche
giorno fa ho letto un post su “nara e nārāyaṇa” del mio amico Diego
Manzi – leggo i suoi articoli sempre molto volentieri, Diego è uno studioso
brillante - e nel mio unico neurone si è accesa una lampadina rossa.
Scriveva
Diego:
“Qual è secondo la tradizione indiana, il grande “privilegio”
umano rispetto agli altri abitanti dei mondi?
नरो नारायणो बुभूषति
naro nārāyaṇo bubhūṣati
l’uomo (nara) desidera diventare dio (nārāyaṇa)”
Non ho motivi per dubitare della correttezza della traduzione a
livello grammaticale – Diego è molto preciso di solito – e, non essendo un
sanscritista non ne ho nemmeno gli strumenti.
Il motivo per cui mi si è accesa la lampadina rossa è un altro e
credo che potrebbe essere lo spunto per un dibattito assai interessante.
Il campo di pertinenza dell’erudito e quello dello yogin si
sovrappongono spesso, ma non coincidono perfettamente, e le interpretazioni di
testi, aforismi e frasi, fatte da un sanscritista - o da un letterato
appassionato di sanscrito - e da uno yogin differiscono a volte notevolmente.
Questo è dovuto a vari fattori:
1. All'ordinaria
ignoranza della lingua sanscrita di molti yogin occidentali, me compreso.
2. Al fatto che
la maggior parte degli yogin medioevali parlavano e scrivevano principalmente
in lingue diverse dal sanscrito – gujarati, tamil, maharati – per cui molti
sanscritisti non sono a conoscenza di alcuni concetti e descrizioni di tecniche
operative che potrebbero modificare la loro interpretazione di certi brani.
3. All'uso
diverso che si fa delle parole in ambiti “intellettuali” e in ambiti
“operativi”.
Potrei citare, riguardo al punto “2” il mantra “Thiru nīla
kaṇṭham” che cela, a quanto mi hanno insegnato, la spiegazione e la valenza
operativa del mito della “Zangolatura dell’Oceano di latte”, o nella pratica
fisica, “Simha vadivu” o “Kukku Vadivu” esercizi degli yogin
guerrieri del Sud, ma credo che il fatto più divertente - molti lo potrebbero
definire un tentativo di scoop - riguarda la parola Yoga.
Sono decenni che i sanscritisti cercano la parola yoga nei testi
vedici e tirano fuori definizioni affascinanti tipo “Yoga vuol dire unione”
ecc. ecc.
Si fanno simposi e conferenze sul significato della parola योग Yoga e sulle sue origini, tutta roba
interessantissima, ma se si
allargasse il campo di indagine potremmo scoprire, forse, che si tratta in realtà della
deformazione della parola jogī, in gujarati “uomo d‘azione”,
“sentinella”.
Gli yogin del nord si facevano chiamare così, jogī o jogi,
poi quando nell'università buddhista di Taxila hanno cominciato a tradurre i
testi dall'antica lingua ( o dialetto) da cui derivano il moderno Gujarati e i dialetti del Rajasthan, in sanscrito hanno scambiato, in molti casi, la “J" (usata allora come adesso nel Gujarati, nel marathi e nei dialetti del Rajastan) nella
“Y” sanscrita, dando luogo ad una serie di divertenti equivoci che hanno portato
a rinominare gli insegnamenti del buddhismo greco - mahajana“grande
conoscenza” in gujarati – mahāyāna
– “grande veicolo” in sanscrito - e, appunto, gli asceti guerrieri - “jogī
- “yogi” o “yogin”.
Ma torniamo al post del mio amico Diego:
“नरो नारायणो बुभूषति
naro nārāyaṇo bubhūṣati
l’uomo (nara) desidera diventare dio (nārāyaṇa)”
Non essendo un sanscritista do per scontato che la traduzione letterale
sia ineccepibile – che ognuno faccia il suo mestiere…- ma dal punto di vista
dello yogin c’è qualcosa che non funziona.
Nello yoga “pratico” alcuni termini vengono usati in modo affatto
diverso che nel linguaggio letterario, e si usano definizioni, che sono parte
di un “gergo tecnico”.
Definizioni che non si troveranno cioè sui dizionari, perché fanno
parte di un linguaggio “da iniziati”, esattamente come per un “iniziato” della
danza “Pas de Chat” ha un significato diverso che per un non inziato.
Per cui è possibile, che in alcuni ambienti, la frase “naro
nārāyaṇo bubhūṣati” assuma significati diversi.
Di certo नर nara e नारायण nārāyaṇa,
soprattutto quando scritti e pronunciati uno dopo l’altro possono assumere un
significato affatto diverso da quello letterale.
नर nara può venire infatti inteso come
“जिव शक्ति विशिष्ट
अंश jiva śakti viśiṣṭa aṃśa”
e
“परमात्मन् शक्ति विशिष्ट
अंश paramātman jiva śakti viśiṣṭa
aṃśa”
ad indicare uno yogin che è una
incarnazione “parziale” di una determinata energia o divinità.
Ragion per cui viene riconosciuto come
अंश अवतार aṃśa
avatāra
ovvero “incarnazione/realizzazione
parziale”, per differenziarlo dal
पूर्ण अवतार pūrṇa avatāra
ovverosia “incarnazione/realizzazione completa”.
Nara, dal punto di vista pratico/yogico, è aṃśa avatāra nel
senso che è dotato, in potenza, dei poteri e dei talenti della divinità o
energia di cui è riconosciuto incarnazione parziale, ma questi poteri e talenti
sono a livello potenziale.
In altre parole “nara” ha bisogno di un riconoscimento/iniziazione
che porti alla coscienza e quindi renda “attivi” i poteri e i talenti “in
sonno”.
Nel Mahābhārata ad esempio Ārjūna
viene chiamato “nara” e Kṛṣṇa “nārāyaṇa”, non solo perché considerati
incarnazioni dei due gemelli Nara e Nārāyaṇa (una doppia
incarnazione di Viṣṇu), ma, anche per suggerire che l’uno è inconsapevole dei propri poteri - Ārjūna
- e l’altro – Kṛṣṇa – ne è
completamente cosciente.
Il Mahābhārata afferma chiaramente e più volte che sia “nara”
che “nārāyaṇa” sono incarnazioni dell’Assoluto (ho messo in nota i
riferimenti[1]),
ma Kṛṣṇa - nārāyaṇa - deve permettere ad Ārjūna
– nara – di “riconoscersi”.
Adesso prendiamo il termine bubhūṣati e giochiamo un
pochino con le parole sfrugugliando, da ignoranti - nel dizionario
Sanscrito-Inglese Monier-Williams:
Bubhūṣati – ovviamente
se non prendo fischi per fiaschi – è un verbo che deriva dalla radice bhū.
Monnier- Williams dà tre possibili significati alla parola
bhū (copio quello che c’è scritto sperando di non fare troppa confusione…):
1. Bhū = being, becoming [sattā-existence,
being ] (pag.
1134/2);
2. Bhū = obtaining, gaining [prāpti-reach,
range, extent,” the power of obtaining everything”…] (pag.
707/3);
3. Bhū = reflecting [avalokana-
"looking like", appearance of…] (Pag.
96/2).
Se
è così la frase:
naro nārāyaṇo bubhūṣati
Potrebbe anche non voler dire (solo):
L’uomo (nara) desidera diventare dio (nārāyaṇa)
che il mio amico Diego intende come “privilegio dell’uomo rispetto
agli esseri senzienti”, ma potrebbe essere un insegnamento per così dire
tecnico:
Nara
(incarnazione parziale) desidera (o deve desiderare) realizzare
(specchiarsi/riconoscere) nārāyaṇa (incarnazione completa).
La tradizione filosofica indiana è piena di riferimenti alle
incarnazioni parziali e alla necessità di “riconoscimento” per attivare i
poteri e i talenti sopiti.
Nello Śaṃkara Digvijayaṃ [2],
la biografia di Śaṃkara così come viene insegnata nella tradizione advaita, si
racconta ad esempio che un giorno, mentre il giovane Yogin stava tenendo
lezione ai suoi allievi sulle rive del gange, si presentò un vecchietto
dall’aria dimessa che cominciò a fargli delle domande filosofiche.
I due cominciarono a litigare violentemente e dettero vita ad un
duello filosofico che si protrasse per otto giorni.
Alla fine, spazientito, intervenne un discepolo di Śaṃkara, Padmapāda:
“Maestro
non ti sei accorto che stai discutendo con Vyāsa, incarnazione di Viṣṇu?
E
tu, Vyāsa, non ti sei accorto che Śaṃkara è una incarnazione di Śiva?
Potreste
continuare a litigare per anni rifiutandovi di dar ragione l’uno all'altro.”
Śaṃkara e Vyāsa si zittirono di colpo, si resero omaggio a
vicenda e Vyāsa, prima di andar via, riconobbe la dottrina di Śaṃkara come
“ortodossa”.
Questo episodio illustra in maniera esemplare il concetto di nara
come incar-nazione parziale.
Śaṃkara è una incarnazione parziale della divinità, ma non lo ricorda.
Solo l’incontro con un altro realizzato - Vyāsa – gli permetterà di
“riconoscersi”.
Il riconoscimento avviene soprattutto grazie a Padmapāda, a
sua volta - si scoprirà in un altro brano dello Śaṃkara Digvijayaṃ - incarnazione
parziale di nārasiṃha.
Quello della “qualificazione del maestro e del discepolo” è un
concetto assai importante nello yoga.
Non so se la frase naro nārāyaṇo bubhūṣati ne sia un
preciso riferimento, ma credo ci siano buone possibilità che, trai possibili
significati, vi sia anche quello della necessità dell’aspirante qualificato di
rispecchiarsi nel maestro per potersi “riconoscere”, ovvero per realizzare
completamente i propri talenti e le proprie abilità.
Può darsi che sentendo la mia interpretazione da “ignorante” i
miei amici sanscritisti sorridano, ma può anche darsi di no.
Nella filosofia "realizzativa" indiana ogni frase, parola, simbolo
hanno vari significati, secondo una scala di interpretazioni non dissimile da
quella messa a punto in occidente da Ugo di San Vittore.
I testi per il teologo medioevale andrebbero sviscerati in quattro
fasi diverse:
1.
La prima,
detta del “Linguaggio Letterale”, corrisponde a ciò che nella filosofia Indiana
è detto śravaṇa, ascolto, una tecnica di interpretazione che consiste
nell’esaminare un testo dal punto di vista grammaticale e logico per poi
verificare la presenza alcune caratteristiche ritenute tradizionali[3].
2.
La seconda,
detta del “Linguaggio Allegorico”, corrisponde a ciò che nella filosofia
indiana è detto manana,
riflessione, che consiste nello sviscerare i significati che vanno oltre il
significato letterale (p.e. Il pavone che oltre ad essere un uccello dalle piume
colorate è anche il simbolo di una fase intermedia dell’Opera Alchemica”).
3.
La terza
fase, detta del “Linguaggio Morale” consiste nella comprensione degli
insegnamenti ricevuti nelle prime due fasi e corrisponde a ciò che nella
filosofia indiana è detto nididhyāsana, che, secondo me, sarebbe la
parola più giusta per indicare la pratica della meditazione.
4.
La quarta
fase, detta del “Linguaggio Anagogico” è indefinibile, perché è un tipo
di conoscenza che non utilizza la mente “discorsiva” e corrisponde a ciò che
nella filosofia indiana è detto samādhi.
Le prime due fasi, se si parla di studio di un testo tradizionale
indiano appar-tengono specificamente al campo di pertinenza dell’erudito, le
altre due al campo dello yogin e si può ben comprendere che entrambi, erudito e
yogin, abbiano bisogno l’uno dell’altro soprattutto in tempi come i nostri dove
lo yoga è spesso considerato come una “pratica del sentire” nella quale lo
studio dei testi e le disquisizioni filosofiche sono considerati inutili o
addirittura dannosi.
Questo non significa certo che per tradurre un testo sia
necessario praticare yoga e aver sperimentato il samādhi,
né che per praticare yoga sia necessario sapere a memoria i libri di Śaṃkara:
ci mancherebbe altro!
Ma ho il sospetto che per comprendere la “valenza operativa” di un
testo, ad esempio, come gli Yoga Sūtra di Patañjali
non siano sufficienti né la semplice erudizione né l’intuizione che proviene da
una lunga e costante pratica dello yoga.
Forse sbaglio, ma credo che da soli, nello yoga, non si vada da
nessuna parte.
Un sorriso,
P.
[3]
L'ascolto
(śravaṇa) di un libro consiste nel verificare se sia "tradizionale" o
meno, se abbia cioè delle “valenze operative”. Si tratta, cioè, di fare una
prima lettura verificando la presenza di alcuni requisiti: se lo scritto [o
l'esposizione orale] li possiede tutti è considerato "tradizionale".
I requisiti di un testo tradizionale sono sei:
Inizio e
fine.
Ripetizione.
Unicità.
Frutto.
Elogio
Verifica.
“Inizio e
fine” (उपक्रम upakrama
e उपसंहार upasaṃhā)
significa che in un testo tradizionale l'inizio e la fine di ogni singolo
capitolo devono essere legati tra loro ed esprimere con chiarezza il tema
trattato.
“Ripetizione
del tema” (अभ्यास abhyāsa)
significa che il tema fondamentale del libro e il tema fondamentale di ogni
singolo capitolo devono essere ripetuti e sviscerati più volte.
“Unicità
e stranezza” (अपूर्वता apūrvatā),
significa che un testo deve essere originale e dare una visione non comune dei
fenomeni psichici e fisici. In altre parole deve essere chiaro che si tratta
della testimonianza di un’esperienza reale fatta dall’autore, un’esperienza che
ha prodotto una modificazione della percezione della realtà.
“Frutto,
risultato previsto” (फल phala
o फलम् phalam)
significa che l’autore indica con chiarezza il risultato che il praticante può
ottenere seguendo le sue indicazioni.
“Elogio,
celebrazione” (अर्थवाद arthavāda)
significa che l’autore cita ed elogia gli insegnamenti dei maestri (गुरु guru) o degli oggetti o fenomeni fisici (उपगुरु upaguru[7])
“Verifica
logica” (उपपत्ति upapatti),
ovvero la dimostrazione attraverso il ragionamento e la citazione di eventi
passati e di brani delle scritture, della validità delle tecniche esposte nel
testo e del loro rientrare in una tradizione, un lignaggio di maestri e
praticanti che hanno vissuto esperienze simili o identiche a quelle
dell’autore.
nella quale lo studio?
RispondiEliminase c'è gioia e piacere, è in qualche modo disponibile nei https://ilgeniodellostreaming.fyi/fantasy/ film...
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