A me Patañjali è sempre stato simpatico.
Innanzitutto per il nome: अञ्जलि añjali si può tradurre con “benedizione,
offerta”, mentre पत pata, volendo[1], si può
interpretare come “l’atto di volare o d cadere” - per cui – non me ne vogliano
gli amici sanscritisti - पतञ्जलि si potrebbe anche intendere con “offerta caduta dall’alto”, esattamente
come “Proietti” - proiectus – nome dato nel medioevo ai bambini che
venivano “lanciati” nella ruota del convento, figli di N.N. insomma.
Un altro motivo
per cui mi fa simpatia è che, secondo i miei amici del Tamil Nadu, Patañjali sarebbe stato un danzatore: sarebbe stato lui ad insegnare al siddha व्याघ्रपाद Vyāghrapāda – un marzialista, a
giudicare dal nome, “Piede di Tigre” – la danza chiamata ताण्डव tāṇḍava, e ancora oggi viene
considerato, nel Sud dell’India, il Santo protettore della danza.
Insomma Patañjali sarebbe un danzatore
figlio di N.N., proprio come me, troppo divertente!
Ma quando è vissuto Patañjali?
In genere nelle scuole di Yoga si
parla di un periodo che va dal V al II secolo a.C., ma se si conoscono un
pochino la storia e la filosofia dell’India, si capisce che è vissuto in epoca
molto più tarda.
Il suo libro sullo Yoga, पतञ्जल योगसूत्रम् - patañjala
yogasūtram – è pieno zeppo di citazioni e riflessioni su termini del buddhismo
mahāyāna, i cui insegnamenti sono stati sistematizzati e messi per scritto,
in sanscrito, dall’imperatore Kanishka, della dinastia Yuèzhī, tra il II eil
III secolo d.C., per cui è altamente probabile che sia vissuto dopo il III
secolo dell’era cristiana, forse nel V secolo[2].
2 Bassorilievo
Kushan (III secolo d.C.) che ritrae un devoto indo greco (a sinistra), Buddha
con due bodhisattva e un monaco cinese, Musée Guimet, Parigi. Fonte:https://en.wikipedia.org/wiki/Yuezhi#/media/File:BuddhistTriad.JPG
Alla fine del XIX secolo, grazie a
Vivekananda e alla Società teosofica, patañjala yogasūtram divenne il testo di
riferimento di tutti gli aspiranti yogin.
Per cui, ancora oggi, chiunque voglia
praticare o addirittura insegnare yoga si sente in dovere di studiarlo,
commentarlo e, talvolta, di tradurlo.
Per quanto mi riguarda ho passato
diversi anni a cercare di capire, forse invano, cosa volesse dire il mio
“quassi omonimo”: dal 2006 al 2012, all’epoca del mio addestramento al vedānta
ho studiato e confrontato le traduzioni di Raphael, Hariharananda Aranya,
Taimni, swami Satchidananda, swami Vivekananda, swami Prabhavananda e le ho
trovate a volte in contraddizione tra loro, quasi che esistesse un’interpretazione
diversa per ogni traduttore, cosa che non facilita certo la comprensione del
testo.
Immagini che le mie stesse difficoltà
le abbiano incontrate molti altri insegnanti e praticanti, tanto è vero che
nelle scuole di yoga si discute quasi esclusivamente di tre argomenti, tralasciando
le parti più ostiche:
1. Il secondo
sūtra:
योगश्चित्तवृत्तिनिरोधः ॥२॥
yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ ॥2॥
yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ ॥2॥
2. La
descrizione degli “otto passi”, अष्टाङ्ग aṣṭāṅga, ovvero यमyama, नियमniyama, आसनāsana, प्राणायाम
prāṇāyāma, प्रत्याहार pratyāhāra, धारणा dhāraṇā, ध्यान dhyāna e
समाधि samādhi.
3. Il concetto di ईश्वर Īśvara, che viene spesso interpretato, se non tradotto, con
Dio o persona divina.
Vorrei soffermarmi su quest’ultimo
argomento - ईश्वर Īśvara – perché solitamente viene
portato a sostegno della tesi che vede in Patañjali un riformatore “teistico” dell’impianto
Ateistico del साम्ख्य sāmkhya. Sentite ad esempio cosa dice wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Yoga_S%C5%ABtra):
“Lo
Yoga si differenzia dal Sāṃkhya anche per essere teista. La parte che Patañjali assegna
a Dio (Īśvara nel testo) è però decisamente
secondaria: non si tratta né di un dio creatore né di un dio giudice, ma di un
dio che può essere di aiuto allo yogin (I.23). Dal punto di vista
dottrinale, Dio è definito come il sommo Sé, un particolare spirito (puruṣa)
quindi, consapevolezza suprema (I.24-25), maestro di ogni maestro (I.26).
Īśvara è quindi un archetipo dello yogin, un collaboratore supremo ideale,
un modello al quale, volendo, abbandonarsi (II.1). Per il
filosofo Vyāsa uno
dei principali commentatori di Patañjali, Īśvara è un puruṣa che è
sempre stato libero”.
È questa la visione più comune nelle scuole occidentali, una
visione che contrasta con quella tradizionale della filosofia indianaper lo
quale lo Yoga, insieme al sāmkhya, si differenzia dalle altre quattro scuole
di pensiero (दर्शन darśana)
per il suo essere ateistico.
Specifichiamo subito che Ateistico, in questo caso, non
significa negare l’esistenza di un dio creatore, ma che “non è dato di sapere
chi o cosa abbia creato la manifestazione”, un atteggiamento non certo raro
nella tradizione indiana, tanto è vero che lo si trova nel cosiddetto "Canto
della Creazione vedico" (Nāsadāsīyasūkta 4 - Ṛgveda, X-129) che propongo
nella traduzione della sanscritista tedesca Maryla Falk ("IL MITO PSICOLOGICO
NELL'INDIA ANTICA" - Adelphi Ed.):
1.nā́sad āsīn
nó sád āsīt tadā́nīṃ
nā́sīd rájo nó
víomā paró yát
kím ā́varīvaḥ
kúha kásya śármann
ámbhaḥ kím āsīd
gáhanaṃ gabhīrám.
1.Non c'era l'Essere allora, né c'era il Non
Essere. Non c'era l'atmosfera né c'era la volta celeste al di là di essa:
che cosa nascondeva? E dove? E nel rifugio [intimo] di che? Era
forse un oceano il profondo abisso?
2.ná mr̥tyúr āsīd amŕ̥taṃ ná tárhi
ná rā́triyā
áhna āsīt praketáḥ
ā́nīd avātáṃ
svadháyā tád ékaṃ
tásmād dhānyán
ná paráḥ kíṃ canā́sa
2.Non
c'era morte allora né immortalità e dalla notte non era distinto il giorno.
Respirava senza fiato quel qualcosa e al di fuori di esso non c'era
nulla.
3.táma āsīt támasā gūḷhám ágre
apraketáṃ saliláṃ sárvam ā idám
tuchyénābhú ápihitaṃ yád ā́sīt
tápasas tán mahinā́jāyataíkam
3.C'era
solo l'oscurità. E tutto Questo era un inconsapevole ondeggiare nascosto
dall'oscurità. Quell'immenso
che era racchiuso nell'esiguo [spazio del cuore] per la potenza del Tapas
(Ardore) nacque.
4.kā́mas tád ágre sám avartatā́dhi
mánaso rétaḥ prathamáṃ yád ā́sīt
sató bándhum ásati nír avindan
hr̥dí pratī́ṣyā kaváyo manīṣā́
4.Al di
fuori si riversò all'inizio Kāma, il desiderio. La prima cosa ad essere generata
dal Manas (Mente sensitiva). Fu scrutando nel cuore che saggi scoprirono
l'identità [il legame] tra Essere e Non Essere.
5.tiraścī́no vítato raśmír eṣām
adháḥ svid āsī́3d upári svid āsī3t
retodhā́ āsan mahimā́na āsan
svadhā́ avástāt práyatiḥ parástāt
5.La corda
di questi [mondi] è posta di traverso. Cosa ci fu al di sopra e cosa ci fu
al di sotto? Portatori
di semi ci furono, e potenze. E al di sotto ciò che basta a se stesso, al
di sopra la manifestazione.
6. kó addhā́ veda ká ihá prá vocat
kúta ā́jātā kúta iyáṃ vísr̥ṣṭiḥ
arvā́g devā́ asyá visárjanena
áthā kó veda yáta ābabhū́va
6.Chi sa? Chi
potrebbe dire da dove è sorta questa emanazione?
Gli dei
stessi sono venuti dopo la sua emissione, chi lo sa, dunque, da dove essa ebbe
origine?
7. iyáṃ vísr̥ṣṭir yáta ābabhū́va
yádi vā dadhé yádi vā ná
yó asyā́dhyakṣaḥ paramé víoman
só aṅgá veda yádi vā ná véda
7.Colui
che vigila sul creato, anche se avesse disposto lui la manifestazione, forse
saprebbe o forse non saprebbe dire da dove essa [la manifestazione] ebbe
origine.
Questo
testo, bellissimo e assai esplicito – “Chi sa? Chi potrebbe dire da dove è
sorta questa emanazione? Gli dei
stessi sono venuti dopo la sua emissione, chi lo sa, dunque, da dove essa ebbe
origine?” - non deve assolutamente sorprendere: le concezioni ateistiche sono
assai comuni nelle filosofia indiana, basti pensare al Buddha che nel Kalama
Sutta esortai suoi discepoli a “non credere”:
“Non dovete credere nella forza
delle tradizioni, anche se sono tenute in grande considerazione per molte
generazioni e in molti luoghi; non credete in una cosa semplicemente perché
molti ne parlano; non credete basandovi unicamente sulle affermazioni degli
antichi saggi; non credete nelle cose che vi siete immaginati pensando che
fosse un dio ad ispirarvi; non credete in nulla che si basi solo sull'autorità
dei vostri maestri o dei preti. Credete soltanto alle cose che avete
sperimentato e, dopo averle attentamente esaminate, trovato ragionevoli e in
grado di fare il vostro bene e quello degli altri”
Il
Buddhismo è Ateistico, il Sāmkhya è ateistico
e lo Yoga è ateistico. E allora da dovei commentatori moderni traggono il
Teismo” di Patañjali?
Da due sūtra,
I.23 e I.24.che poi vengonocitato in II.1, una specie di riassunto del
“capitolo precedente”:
ईश्वरप्रणिधानाद्वा ॥२३॥
īśvara-praṇidhānād-vā ॥23॥
īśvara-praṇidhānād-vā ॥23॥
Īśvara = “Colui che è abile, il Signore, il principe, il re”.
Praṇidhāna = “contemplazione, devozione”.
Vā = “oppure”.
23. Oppure si può realizzare il secondo tipo di
coscienza/conoscenza immergendosi nella contemplazione di īśvara.
क्लेश कर्म विपाकाअशयैःअपरामृष्टः पुरुषविशेष ईश्वरः ॥२४॥
kleśa karma vipāka-āśayaiḥ-aparāmṛṣṭaḥ puruṣa-viśeṣa īśvaraḥ ॥24॥
kleśa karma vipāka-āśayaiḥ-aparāmṛṣṭaḥ puruṣa-viśeṣa īśvaraḥ ॥24॥
Kleśa = “pena, dolore, afflizione, angoscia”[3].
Karman = “azione, performance, rito o atto religioso”
Vipāka = “effetto, risultato, maturazione, conseguenza
(soprattutto di azioni compiute nel passato o in esistenze precedenti).
Karmavipāka = "la maturazione delle azioni, le conseguenze
buone o cattive in questa vita di atti umani compiuti nelle nascite precedenti
(ottantasei conseguenze sono descritte nella śātātapa-smṛti[4])”.
Āśayaiḥ = “luoghi di riposo, letti, recipienti”[5].
Aparāmṛṣṭaḥ = “intonso, non toccato, non collegato in alcun
modo”.
Puruṣa = “uomo, persona, essere vivente” [6]
Viśeṣa = “discriminazione, distinzione, differenza, peculiarità”.
Īśvara = “Colui che è abile, il Signore, il principe, il re”.
24. Īśvara è
quel particolare puruṣa che non è toccato né dalle cinque afflizioni
dell’essere umano né dalle conseguenze, positive e negative delle vite
precedenti in quella attuale né dai semi di esperienze passate non ancora
giunti a maturazione.
Ora a
parte il fatto che viene specificato che Īśvara non è Dio, ma un “particolare
puruṣa”, in un testo complesso come questo non si può mica prendere un
versetto e interpretarlo da solo!
Bisogna
cercare di capire i collegamenti tra i vari aforismi, analizzando poi le
diverse sezioni e si deve tener conto della tecnica di interpretazione dei
testi tradizionali.
Un libro
“tradizionale”, come si dice siano gli Yoga Sūtra, non va solo letto: va
"praticato" nel senso che si tratta di un testo “operativo”,
presumibilmente finalizzato ad una serie di progressive realizzazioni, ovvero
modificazioni della mente e del corpo e, di conseguenza, della realtà
percepita.
La tecnica di base di interpretazione e di "fruizione" di
un testo tradizionale si basa su cinque "strumenti" fondamentali:
Śravaṇa
(ascolto).
Manana
(meditazione nel senso di comprensione letterale, riflessione, concentrazione
sui simboli e le immagini in determinate posizioni e con determinati gesti).
Nididhyāsana
(letteralmente "sedersi a guardare il tesoro", la meditazione vera e
propria in una delle posizioni consigliate dallo Yoga: Padmāsana o posizione
del loto, Ardha Padmāsana o mezzo loto, Siddhāsana o posizione perfetta…).
Samādhi o “Estasi” o “Contemplazione”,
che si può intendere come lo stato in cui "la mente riposa in se
stessa" e si è in unione col “vero Sé”, con l’Universo o con l’Essere
Supremo (chiamato in sanscrito Brahman).
L'ascolto
(śravaṇa) di un libro consiste nel verificare se sia "tradizionale" o
meno, se abbia cioè delle “valenze operative”. Si tratta, cioè, di fare una
prima lettura verificando la presenza di alcuni requisiti: se lo scritto [o
l'esposizione orale] li possiede tutti è considerato "tradizionale".
I requisiti di un testo tradizionale sono sei:
Inizio e
fine.
Ripetizione.
Unicità.
Frutto.
Elogio
Verifica.
“Inizio e
fine” (उपक्रम upakrama e उपसंहार upasaṃhā)
significa che in un testo tradizionale l'inizio e la fine di ogni singolo
capitolo devono essere legati tra loro ed esprimere con chiarezza il tema
trattato.
“Ripetizione
del tema” (अभ्यास abhyāsa) significa che il tema fondamentale
del libro e il tema fondamentale di ogni singolo capitolo devono essere
ripetuti e sviscerati più volte.
“Unicità e
stranezza” (अपूर्वता apūrvatā), significa che un testo deve essere
originale e dare una visione non comune dei fenomeni psichici e fisici. In
altre parole deve essere chiaro che si tratta della testimonianza di
un’esperienza reale fatta dall’autore, un’esperienza che ha prodotto una
modificazione della percezione della realtà.
“Frutto,
risultato previsto” (फल phala o फलम् phalam)
significa che l’autore indica con chiarezza il risultato che il praticante può
ottenere seguendo le sue indicazioni.
“Elogio,
celebrazione” (अर्थवाद arthavāda) significa che l’autore cita ed
elogia gli insegnamenti dei maestri (गुरु guru) o
degli oggetti o fenomeni fisici (उपगुरु upaguru[7])
“Verifica
logica” (उपपत्ति upapatti), ovvero la dimostrazione attraverso
il ragionamento e la citazione di eventi passati e di brani delle scritture,
della validità delle tecniche esposte nel testo e del loro rientrare in una
tradizione, un lignaggio di maestri e praticanti che hanno vissuto esperienze
simili o identiche a quelle dell’autore.
Secondo
voi se Patañjali avesse voluto rivoluzionare lo yoga in senso teistico avrebbe
usato la parola Īśvara solo due volte in tutto il primo libro?
Tra l’altro
se si leggono tutti i versetti della ”sezione” relativa a I.23 e I.24,secondo
me si capisce benissimo che Īśvara è uno dei tre puruṣa ovvero delle tre
possibilità coscienziali dell’essere umano nella manifestazione:
ईश्वरप्रणिधानाद्वा ॥२३॥
īśvara-praṇidhānād-vā ॥23॥
īśvara-praṇidhānād-vā ॥23॥
Īśvara = “Colui che è abile, il Signore, il principe, il re”.
Praṇidhāna = “contemplazione, devozione”.
Vā = “oppure”.
23. Oppure si può realizzare il secondo tipo di coscienza/conoscenza
immergendosi nella contemplazione di īśvara.
क्लेश कर्म विपाकाअशयैःअपरामृष्टः पुरुषविशेष ईश्वरः ॥२४॥
kleśa karma vipāka-āśayaiḥ-aparāmṛṣṭaḥ puruṣa-viśeṣa īśvaraḥ ॥24॥
kleśa karma vipāka-āśayaiḥ-aparāmṛṣṭaḥ puruṣa-viśeṣa īśvaraḥ ॥24॥
Kleśa = “pena, dolore, afflizione, angoscia”[8].
Karman = “azione, performance, rito o atto religioso”
Vipāka = “effetto, risultato, maturazione, conseguenza (soprattutto
di azioni compiute nel passato o in esistenze precedenti).
Karmavipāka = "la maturazione delle azioni, le conseguenze buone
o cattive in questa vita di atti umani compiuti nelle nascite precedenti (ottantasei
conseguenze sono descritte nella śātātapa-smṛti[9])”.
Āśayaiḥ = “luoghi di riposo, letti, recipienti”[10].
Aparāmṛṣṭaḥ = “intonso, non toccato, non collegato in alcun modo”.
Puruṣa = “uomo, persona, essere vivente” [11]
Viśeṣa = “discriminazione, distinzione, differenza, peculiarità”.
Īśvara = “Colui che è abile, il Signore, il principe, il re”.
24. Īśvara è quel
particolare puruṣa che non è toccato né dalle cinque afflizioni dell’essere umano
né dalle conseguenze, positive e negative delle vite precedenti in quella attuale
né dai semi di esperienze passate non ancora giunti a maturazione.
तत्र निरतिशयं सर्वज्ञबीजम् ॥२५॥
tatra niratiśayaṁ sarvajña-bījam ॥25॥
tatra niratiśayaṁ sarvajña-bījam ॥25॥
Tatra = “là, in quel luogo”[12].
Niratiśaya = “perfetto, insuperabile, infallibile”.
Sarvajña = “Colui che tutto sa, colui che conosce uomini e Dei, l’onnisciente”[13].
Bija = “seme, sperma, causa originaria”.
25. Là, in quel luogo (ovvero in īśvara) si trova il
seme dell’insuperabile Signore dello Yoga.
स एष पूर्वेषामपिगुरुः कालेनानवच्छेदात् ॥२६॥
sa eṣa pūrveṣām-api-guruḥ kālena-anavacchedāt ॥26॥
sa eṣa pūrveṣām-api-guruḥ kālena-anavacchedāt ॥26॥
Sa eṣa = “Lui, Egli” [14]
Pūrveṣām = “antichi, gli Antichi dell’universo, dei nostri predecessori,
di quelli del passato” [15].
Api = “anche”.
Guru = “grande, largo, pesante, venerabile” per estensione semantica
indica anche “il pianeta Giove” e qualunque persona degna di rispetto che sia investita
del ruolo di “maestro”, “maestro spirituale” o “precettore”.
Kālena = “dal corso del tempo, dagli effetti del tempo”[16]
Anavaccheda = “non limitato”
26. Non essendo limitato dal corso del tempo Lui è
anche il Guru dei maestri antichi.
तस्य वाचकः प्रणवः ॥२७॥
tasya vācakaḥ praṇavaḥ ॥27॥
tasya vācakaḥ praṇavaḥ ॥27॥
Tasya = “di lui, di quello”.
Vācaka = “colui che parla, colui che recita” oppure “suono significante,
significante di, espressione di”[17].
Praṇava = “la sacra sillaba oṃ (ॐ)”.
27. Il suono con cui Lui si esprime è la sacra sillaba
ॐ.
तज्जपः तदर्थभावनम् ॥२८॥
taj-japaḥ tad-artha-bhāvanam ॥28॥
taj-japaḥ tad-artha-bhāvanam ॥28॥
Taj = “questo, quello”.
Japa = “mormorare, sussurrare”, nello yoga “ripetere, sussurrando,
passi delle scritture, preghiere e mantra”.
Tad = “lei, lui, questo, quello, in quel modo, in quel luogo”.
Artha= “senso, significato, uso, sostanza, ricchezza, soldi, membro
virile, oggetto dei sensi[18]”.
Tadartha = “intendendo per quello, avendo lo stesso significato, il
suo (o il loro) significato”.
28. A causa della
ripetizione del praṇava si realizza il suo reale significato.[21]
ततः प्रत्यक्चेतनाधिगमोऽप्यन्तरायाभवश्च ॥२९॥
tataḥ pratyak-cetana-adhigamo-'py-antarāya-abhavaś-ca ॥29॥
tataḥ pratyak-cetana-adhigamo-'py-antarāya-abhavaś-ca ॥29॥
Tatas = “da quello, da quel posto, in quel posto, quindi”.
Pratiak = “all’indietro, in direzione opposta”[22].
Cetana = “anima, mente, percipiente, senziente, cosciente”.
Pratyakcetana = “uno i cui pensieri sono rivolti a se stesso o alla
propria interiorità”.
Adhigama = “acquisizione, realizzazione, l’atto di realizzare”.
Api = “anche”.
Antarāya = “ostacolo, impedimento, interruzione”.
Abhava = “distruzione, non esistenza, fine”.
Ca = “e, pure, entrambi, così come”.
29. Da questo procedono la realizzazione della coscienza
interiore e la rimozione degli ostacoli.
A me
sembra assai chiaro: si sta parlando della realizzazione di un particolare
stato meditativo e delle recitazione interiore del praṇava
intesa come “tecnica operativa per rimuovere gli ostacoli”.
Patañjali nel
primo libro non parla di “realizzazione” né, tantomeno, di identità con Dio. Sta
esponendo le “pratiche preliminari”. Solo nel quarto libro parlerà di
realizzazione che non è intesa con “identità o rapporto con Dio ma come uno
stato conseguente al riassorbimento dei guṇa(cfr. IV.34), una visione tra
virgolette “materialista” e indubbiamente “Ateistica
[1] Vedi
Monier -Williams
[2] Vedi:
Gavin Flood, L'induismo,
traduzione di Mimma Congedo, Einaudi, 2006.
Giuseppe Tucci, Storia della filosofia
indiana, Editori Laterza, Bari, 2005.
[3]
Nello Yoga si parla di cinque cause di afflizione dell’essere umano chiamate
kleśa: avidyā, "ignoranza", asmitā, "egotismo", rāga,
"passione", dveṣa, "avversione" e abhiniveśa -, "attaccamento
all’ esistenza mondana". Per i buddhisti i kleśa sono invece dieci: tre
del corpo [omicidio, furto, adulterio], quattro della parola [mentire,
calunniare, far violenza verbale, parlare inutilmente] e tre della mente
[cupidigia, malizia, scetticismo].
[4]
Śātātapa è uno dei più antichi autori indiani, citato da altri come
Yājñavalkya, Parāśara, Viśvarupa e Haradatta. Il suo lavoro è citato
specialmente per gli insegnamenti sul tema della prāyaścitta, che potremmo
tradurre con “espiazione per i peccati”.
[5]
Āśaya, di cui āśayaiḥ (āśayais) è plurale strumentale, significa solitamente
“luogo di riposo, asilo, ricettacolo”, ma viene usato anche per definire gli
organi del corpo (lo stomaco ad esempio è detto āśaya in quanto “ricettacolo
del cibo”. Nello Yoga viene però inteso come “deposito di contenuti psichici” o
“insieme dei frutti delle azioni non ancora giunti a maturazione” Si legge in
sarvadarśana-saṃgraha 168, 16 (traduzione di Edward Byles Cowell:
“Āśaya […] stock or the balance of the fruits of
previous works, which lie stored up in the mind in the form of mental deposits
of merit or demerit, until they ripen in the individual soul's own experience
into rank, years, and enjoyment".
[6] Puruṣa significa letteralmente “persona”, “essere
umano”. Nella Manusmṛti, il più antico testo legale indiano si parla di tre
diversi puruṣa, prathama, madhyama e uttama, che indicano, ad esempio, tre
diversi ruoli o livelli dell’amministrazione di una città o uno stato (alto
ufficiale, funzionario, servitore…). Nei Veda è usato come sinonimo di nārāyaṇa,
parola che indica il “primo uomo”, “il primo figlio di Dio” ecc. Quando compare
insieme alle parole para-, parama o uttama indica la “persona divina”
identificabile con brahmā, Viṣṇu, Śiva o Durgā. Talvolta viene usato per
indicare il monte Meru.
[7]
उपगुरु upaguru
significa letteralmente “vicino al Guru”. Nella letteratura vedica e tantrica
si parla di “Realizzazione” ottenute grazie a fulmini, animali, bastoni di
bambù, pupazzi ecc.)
[8]
Nello Yoga si parla di cinque cause di afflizione dell’essere umano chiamate
kleśa: avidyā, "ignoranza", asmitā, "egotismo", rāga,
"passione", dveṣa, "avversione" e abhiniveśa -,
"attaccamento all’ esistenza mondana". Per i buddhisti i kleśa sono
invece dieci: tre del corpo [omicidio, furto, adulterio], quattro della parola
[mentire, calunniare, far violenza verbale, parlare inutilmente] e tre della
mente [cupidigia, malizia, scetticismo].
[9]
Śātātapa è uno dei più antichi autori indiani, citato da altri come
Yājñavalkya, Parāśara, Viśvarupa e Haradatta. Il suo lavoro è citato
specialmente per gli insegnamenti sul tema della prāyaścitta, che potremmo
tradurre con “espiazione per i peccati”.
[10]
Āśaya, di cui āśayaiḥ (āśayais) è plurale strumentale, significa solitamente
“luogo di riposo, asilo, ricettacolo”, ma viene usato anche per definire gli
organi del corpo (lo stomaco ad esempio è detto āśaya in quanto “ricettacolo
del cibo”. Nello Yoga viene però inteso come “deposito di contenuti psichici” o
“insieme dei frutti delle azioni non ancora giunti a maturazione” Si legge in
sarvadarśana-saṃgraha 168, 16 (traduzione di Edward Byles Cowell:
“Āśaya […] stock or the balance of the fruits of previous
works, which lie stored up in the mind in the form of mental deposits of merit
or demerit, until they ripen in the individual soul's own experience into rank,
years, and enjoyment".
[11] Puruṣa significa letteralmente “persona”, “essere
umano”. Nella Manusmṛti, il più antico testo legale indiano si parla di tre
diversi puruṣa, prathama, madhyama e uttama, che indicano, ad esempio, tre
diversi ruoli o livelli dell’amministrazione di una città o uno stato (alto
ufficiale, funzionario, servitore…). Nei Veda è usato come sinonimo di nārāyaṇa,
parola che indica il “primo uomo”, “il primo figlio di Dio” ecc. Quando compare
insieme alle parole para-, parama o uttama indica la “persona divina”
identificabile con brahmā, Viṣṇu, Śiva o Durgā. Talvolta viene usato per
indicare il monte Meru.
[12]
Tatra, che in questo versetto viene tradotto in genere con “in Lui”, o “in īśvara”, significa letteralmente “là”, “in
quel luogo”. Probabilmente, come accade spesso in questo testo, le varie
“Persone divine” vanno sempre intese come dimensioni o luoghi o stati di
coscienza a cui accedere.
[14] Quando
la sillaba sa precede un pronome, in questo caso eṣa lo “enfatizza”. È come
scrivere la terza persona singolare con la maiuscola (Lui, Lei) per esprimere
rispetto o devozione.
[15] Pūrveṣām, antico, nella letteratura sanscrito
va a significare “dei nostri predecessori come il ṛṣi
Nārada” (vedi: Bhāgavata Purāṇa 10,87,3), “degli antichi dell’universo come
Marīci e gli altri (Bhāgavata Purāṇa 7,1,37).
[16]
Vedi Bhāgavata Purāṇa 9.30.31 e 10.20.16.
[17]
Vedi Mahābhārata.
[18]
Artha indica anche il numero cinque, ma in genere significa “sostanza,
proprietà, ricchezza, oggetto fisico”. Nel varāha mihira è sinonimo di
“oggetto dei sensi”.
[19]
Vedi Bhāgavata Purāṇa 3.26.46.
[20]
Vedi Bhāgavata Purāṇa 3, 32, 7 e 4, 29, 76-77.
[21] Per la traduzione di questo versetto mi sono
attenuto alle versioni più note, ma secondo me non sarebbe errato tradurre in
questo modo:
“A
causa della ripetizione (japaḥ)di questo (taj=quello) [ovvero del praṇava] quello (tad) [il Signore
dello Yoga, diviene] oggetto di percezione (artha)”.
[22]
Vedi Ṛg Veda e Atharva Veda.
pronome, in questo caso eṣa lo “enfatizza”
RispondiEliminaI film https://igds.onl possono davvero aiutare le persone.
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