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I VELI DELLA DEA - IL PARADISO DI TRISHANKU


Tratto da "ONDE DI LUCE - Iniziazione di uno Yogin occidentale" - libro in pubblicazione.

“Felice e beatissimo, sarai dio invece che mortale. Agnello caddi nel latte. Chi sei? Da dove sei? Sono figlio della Terra e del Cielo stellato”. 
Frammenti Orfici, fr. 32 Kern.


Lo yoga ci dice che siamo angeli caduti.
O dei annichiliti.
La liberazione, o la salvazione, della religione e della filosofia, è il ricordo di sé. È l'attimo in cui si è abbagliati dal riflesso della luce originaria che, da qualche parte, dentro di noi, continua a risplendere. Si dicono le stesse cose in Oriente, come da noi, ma se il Dio creatore dei cristiani invia il proprio figlio a morire sulla croce per i peccati dell'umanità e a spargere la grazia come fosse un profumo di cui, in fin dei conti, non si può fare a meno di godere, quello degli indiani dorme il sonno dei giusti, sulle acque scure dell'oceano dell'inizio. Non c'è nessun popolo eletto, per il sapere orientale. Nessun messia.
Ogni tanto scende sulla terra un Buddha, o un Avatar, ma il suo compito è di indicare la via, non di porgere la grazia.
I maestri insegnano, non salvano.
La consapevolezza della luce divina va conquistata. Come la spada. Bisogna estrarla, metallo grezzo, dalla madre terra, ripulirla e modellarla col potere del fuoco e del vento, temprarla con l'acqua e lucidarla con pietre che solo il maestro sa riconoscere e cogliere.
- “Tutti gli esseri sono in me” - dice Kṛṣṇa nella Bhagavadgītā - “ma io non sono in loro” -.
È questa l'intuizione, terribile e meravigliosa, dei filosofi indiani: Dio non alberga affatto dentro di noi.
E neppure è affacciato alla finestra dell'ultimo piano, pronto a correre giù per consolarci quando ci sbucciamo le ginocchia nei nostri giochi infantili. Dorme. E sogna di noi. La nostra vita, gli incontri, e le città, gli oceani, l'universo intero sono solo un sogno sognato dal Dio che dorme. La via della liberazione comincia da qui, da questa consapevolezza.
Ognuno di noi, anche nell'incubo peggiore, rivede un po' di se stesso. I fantasmi che paura e desiderio fanno muovere nei teatrini notturni ci guardano con i nostri occhi. Ed è nostra la voce con cui ci blandiscono o spaventano. Noi siano il sogno sognato da un dio che dorme, ma ne condividiamo la natura essenziale: il germe della creazione o tathāgatagarbha, per i buddisti.
Percepirlo è ciò che chiamano “conoscenza”.
Comprendere che brilla in noi allo stesso modo che in Śiva o in Buddha è la realizzazione. Il sogno del dio è Femmina. Lo chiamano Māyā, Śakti, o, i taoisti, “Femmina misteriosa”. Māyā costruisce e arreda il Gran Teatro dell'illusione. Poi riveste, con costumi ogni volta diversi, le marionette che Lei stessa ha costruito, e infonde loro l'energia per muoversi, amare, pensare. Se la percezione della scintilla divina è conoscenza, i veli con cui viene avvolta è l'ignoranza. Sono cinque i veli dell'essere umano: il primo è il corpo di carne, la materia che i ṛṣi, gli antichi veggenti, mettevano al servizio della Dea Terra.
Il secondo velo è l'energia vitale che fluisce come l'Acqua nei mari e nei fiumi. Il Terzo è la passione, il Fuoco. Poi c'è il potere della mente, la conoscenza, impalpabile come l'Aria. Infine la volontà che tenta, invano, di delimitare lo Spazio infinito. Nascondono la fiammella della creazione, i veli. Una fiammella che è la Dea stessa, il suo corpo nudo.
La via della liberazione, per lo yoga, è la Danza della Dea.
Ogni volta che ci mostra un brandello di verità facciamo un'esperienza che trasforma la mente, il corpo, la vita.
Si chiama iniziazione, l'esperienza, o samādhi, e dopo l’iniziazione assisti, puoi assistere, ad eventi che sembrano magia e ti sembra, ti può sembrare, di aver acquisito poteri paranormali. In realtà, come diceva il mio amico Ninad, si applica l'etichetta di paranormale in ragione della spiegazione di un fenomeno, non del fenomeno in sé. Se vedo un uomo che si butta in un burrone e plana come una rondine non credo ai miei occhi. Se l'uomo ha un deltaplano o un paracadute non ci vedo nulla di eccezionale. La mente umana vive di legami e di relazioni. Si passa più tempo a cercare di interpretare la vita che a viverla, è una cosa che mi ha sempre colpito. Se improvvisamente un paralitico si alza in piedi e comincia a camminare, l'attenzione di chi assiste si sposta, subito, dall'evento alle ragioni che lo hanno determinato: un miracolo, una naturale reazione dell'organismo, l’effetto ritardato di un farmaco oppure un tentativo di truffa.
Si discuterà fino a formulare una qualche ipotesi che i più riterranno soddisfacente.
Il nesso di causalità, niyati in sanscrito, è il quinto velo di Māyā, il primo a dover essere sollevato. Sollevare il velo della Dea è un'immagine poetica. Viene da pensare ad una donna, eternamente giovane e bella, vestita di seta leggera. Il samādhi, come un soffio di vento o un tocco lieve della mano, le scopre un seno o una coscia tornita, ubriacando di Bellezza e desiderio la mente dello yogin. Poetico, dicevo, ma impreciso: In sanscrito le cinque limitazioni non sono propriamente veli, si chiamano kañcuka, come le armature. Gli indiani e i tibetani raccontano un sacco di storie. Una per ogni gesto ed ogni parola. La storia dei kañcuka è quella dell'uomo che volle farsi Dio, Satyavrata. Ne parla il Ramāyāna. È una storia un po’ lunga, ma credo valga la pena di raccontarla:
Satyavrata è un guerriero, uno kṣatriya. Un giorno, decide di andare a vivere nel mondo degli Dei. Vuole andarci così com'è, in carne ed ossa, con la sua faccia, la spada, lo scudo e gli emblemi del suo lignaggio. Pare si usasse così, all'epoca. Va da un brāhmaṇa e comincia i preparativi per il viaggio, ma qualcosa va storto. Satyavrata si macchia di tre colpe gravi:
Prima manca di rispetto al padre, poi uccide la vacca del suo maestro e, infine, se la mangia, senza neppure fare riti di purificazione. In un colpo solo Satyavrata perde gli agi della corte e la chiave per entrare in paradiso. Perde persino il nome: da quel momento sarà chiamato Triśaṅku, parola che alcuni traducono con “tre peccati”, ma che indica invece il “gatto selvatico indiano”, una creatura indomabile, come indomabile era Satyavrata. Triśaṅku ha la testa dura. Ha sentito dire che esiste un'altra via per l'immortalità, la via delle droghe. Convince uno sciamano a insegnargli l'uso delle erbe sacre e varca la “Porta del Sole”, il cancello d'oro che separa il mondo degli uomini dal regno dei cieli. È uno kṣatriya, discendente della stirpe solare, Sūrya-vaṃśa e si ritrova Dio tra gli dei. Indra, il re del Cielo, è preoccupato. Un guerriero non può che combattere. Un principe non può che aspirare al trono. Per evitare una guerra, dagli esiti incerti, si crea per un paradiso artificiale, identico al Paradiso di Indra, in cui Triśaṅku potrà regnare fino alla fine dei tempi. Il problema è risolto, ma quella porta, quella via diretta dalla quale gli umani possono infilarsi senza troppe difficoltà nel regno dei cieli, in qualche modo va chiusa o, almeno, occultata. La Dea, l'infinita energia creatrice dell'universo, intesse allora con i fili colorati della Luce, del Silenzio e del Vuoto, cinque armature, i kañcuka. Cinque come i poteri della divinità secondo lo yoga.
Se la divinità è onnipresente (vyāpakatva), onnisciente (sarvajñatva), priva di desideri (pūrṇatva), eterna (nityatva), onnipotente (sarvakartṛtva) l'essere umano, da qui in poi sarà limitato dalle dimensioni (kalā = atomo), dalla conoscenza imperfetta (vidyā), dalla passione (rāga), dal tempo che scorre (kāla) e dalla necessità (niyati= principio di causalità).
La storia di Triśaṅku ci insegna che un tempo l'uomo era libero. Attorno a quello stato originario (lo Stato Naturale) la Dea tesse la prima armatura, il corpo del piacere supremo (ānanda). Dentro ci nasconde la nostalgia del cielo. Poi lo avvolge con la seconda armatura, il corpo del desiderio, l'anima, e sopra a quella l'armatura della mente, con la dannazione del dubbio e poi il corpo delle energie che freme al ritmo delle stagioni. Infine, racchiude il tutto nel corpo fisico, guaina di ossa, muscoli, carne e pelle. I fili con cui ha tessuto le cinque corazze li annoda al ventre, al cuore ed alla fronte, creando i tre granthi, i “nodi della conoscenza”. Infine, stanca per il lavoro, si addormenta, la Dea. O finge di dormire. Si arrotola in forma di serpente. Si arrotola su se stessa, per questo la chiamano kuṇḍalinī, l'anello. Si nasconde nell'ultima corazza e resta lì, in attesa che l'uomo la risvegli per svegliare se stesso. Solo lei può disfare la sua opera, sciogliendo ad uno ad uno i tre nodi della conoscenza. Come l'universo è fatto di cinque sfere, l'una dentro l'altra, l'uomo è un aggregato di cinque corpi. L'ultimo si chiama necessità, il primo libertà.
Il viaggio dello yoga comincia da qui, dalle corazze indossate l'una sull'altra e dai tre nodi (granthi) che le tengono assieme. Sciogliere i fili e vedere le armature disfarsi ad una ad una genera stupore, ma anche dolore.
Ogni filo è una faccia antica o la promessa di un sorriso.
Al dissolversi dei kañcuka speranze e ricordi scivolano via come rena di sogno. Milarepa, il grande yogin tibetano, dopo aver disciolto il nodo del ventre, cominciò a volare, come le aquile, le anatre selvatiche. Così, almeno, si racconta.
Io no, dopo quasi cinquanta anni di pratica, di ricerca e di insegnamento dello yoga non ho ancora imparato a volare. In compenso sono a riuscito a tracciare la mia linea di confine tra il prima e il dopo ed ho scoperto che sciogliere i veli della Dea vuol dire anche togliersi le maschere che il buon senso e ciò che chiamiamo cultura ci incollano sulla faccia. Ci sono le nostre piccole e grandi meschinità dietro quelle maschere. E rabbia, paura, invidia. Fa male assai togliersi le maschere, ma dopo, una volta tracciato il confine, attraverso il dolore si fanno strada la tenerezza e la compassione per se stessi. Sembra strano, ma se impari ad amare te stesso l’angoscia che ti accompagna da sempre piano piano svanisce e la naturale ansia di incompiutezza dell’essere umano si scioglie, come in una danza leggera.

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