"Cessa di associare all'etere ([1]) i molteplici upādhi [2]come ad esempio la brocca, il vaso, il granaio,
l'astuccio per gli aghi ecc., perché l'etere è uno e non molteplice; così il
Supremo, quando è libero dalle sovrapposizioni dell'io, ecc., in verità è
Uno."
(Śaṅkara,
Vivekacudamani, 385. Traduzione di Raphael)
Il Movimento Naturale è il
movimento dello Stato Naturale, o Sahaja, e dagli artisti marziali cinesi e
giapponesi è associato alla Giusta Azione degli insegnamenti buddhisti. Il
movimento naturale richiederà ovviamente un Giusto rapporto con lo Spazio, dal
quale deriva ciò che, nella danza, nel teatro e nelle arti marziali, viene
definito “Presenza”. Per apprendere il giusto rapporto con lo Spazio occorre
comprendere il significato di Spazio e di Vuoto. Qual è la differenza tra
Spazio e Vuoto? Anche se spesso vengono intesi nella stessa maniera, dovremmo
considerare lo Spazio come uno dei cinque elementi costitutivi della materia ed
il Vuoto come concetto filosofico astratto o come una qualità dello Spazio.
Quando si afferma che una stanza è vuota si qualifica lo Spazio. Nella frase
"questo spazio è vuoto" Vuoto è inteso come aggettivo qualificativo e
quindi è attributo di Spazio. Se invece si parla di Vuoto in sé lo si intende
come assenza di qualcosa.
Lo Spazio è Presenza, il Vuoto, come lo si intende comunemente, è Assenza.
La parola sanscrita शून्य śūnya che traduciamo di solito
con Vuoto ha moltissimi significati: zero matematico, libero, vacante, assente,
vergine, annullato, abbandonato, deserto, ma nel linguaggio comune è sempre una
QUALIFICAZIONE DELLO SPAZIO. Lo Spazio interno, ad esempio, di una teiera può
essere vuoto o pieno, ma questo non muterà la forma di porcellana, ovvero il
corpo fisico di una teiera.
Il corpo fisico/teiera è pṛthvī.
Il corpo interno/tè è prakṛti.
Il tè può essere caldo o freddo o
tiepido. Può essere nero, verde, rosso, bianco. Può essere gradevole o
sgradevole. Comunque sia viene preparato, fatto riposare e bevuto (o, a volte,
se fa schifo, gettato nel lavandino), così come il destino dell'individuo, a
prescindere dai suoi lineamenti, dalla sua cultura, dalle sue doti umane, è
quello di nascere, crescere, morire. L'unica differenza è che il tè non si
lamenta, mentre l’essere umano invece si lamenta continuamente delle
limitazioni alla propria voglia di vivere in eterno, alla propria voglia di non
soffrire, alla propria voglia di possedere tutto ciò che può dargli piacere o
serenità. E si interroga sui motivi di tali limitazioni. Queste limitazioni
vengono chiamate, in sanscrito कञ्चुक
kañcuka che significa "giacca”, "blusa", "giubba", ma
che, anticamente era usato per “armatura” o “corazza”.
Nella mitologia Indiana i cinque
kañcuka sono in effetti delle armature costruite con un duplice scopo:
1-
Difendere gli
dei dai mortali che, per caso o in maniera "artificiale" giungessero
nel loro regno mettendone in discussione il potere;
2- Proteggere i mortali giunti nei regni celesti
dagli effetti di una pesante ricaduta.
Nel Ramayana si narra la storia
di uno di costoro, il principe Satyavrata detto Trishanku. Satyavrata è uno क्षत्रिय kṣatriya che decide di ascendere
al regno degli dei. A causa pare di tre peccati (manca di rispetto al padre,
uccide una vacca sacra che apparteneva al suo maestro e ne mangia le carni
senza fare riti purificatori), si cimenta nella via delle droghe e riesce a
salire con il "corpo fisico" nel Paradiso di Indra, ben deciso a
rimanervi ed a far valere le sue doti guerriere. Il Re degli dei pensa
inizialmente di fargli guerra, ma essendo Trishanku un discendente della Stirpe
Solare (Sūryavaṃśa) le sorti di un eventuale conflitto sarebbero stati assai
incerte. Per evitare rischi gli dei decidono di costruire per Satyavrata un
Paradiso artificiale uguale uguale a quello di Indra, e, nel caso di una sua
possibile ricaduta gli si donano cinque armature: i kañcuka. I kañcuka hanno il
compito di impedire l'entrata dell’essere umano con il suo corpo fisico, nel
Regno dei Cieli. Solo chi ha risolto le Guaine corporee (koṣa) può passare
indenne dalla "porta d'oro". Sono
cinque i kañcuka, come cinque sono i poteri della divinità:
Se il Divino è ONNIPRESENTE (vyāpakatva) il mondo umano è caratterizzato
dalla LIMITATEZZA DELLO SPAZIO (कला kalā, atomo), ovvero dal porre l'attenzione sul particolare.
Se il Divino è ONNISCIENTE (sarvajñatva) l'essere umano è caratterizzato
dalla CONOSCENZA DISCRIMINANTE (विद्या vidyā[3].
Se il Divino è COMPLETO IN SÈ (pūrṇatva), l'umano sarà limitato da PASSIONE
E DESIDERIO (राग rāga).
Se il Divino è ETERNO (nityatva),
l'umano sarà limitato dal TEMPO (काल kāla).
Se il Divino è ONNIPOTENTE (sarvakartṛtva), l'umano sarà limitato dal
principio di necessità o principio di causa effetto (नियति niyati).
La madre dei cinque veli
limitanti è माया māyā ovvero kuṇḍalinī e la
risalita di kuṇḍalinī equivale allo scioglimento dei cinque veli limitanti.
Se non ci fossero i veli di māyā
non esisterebbero il TEMPO né lo SPAZIO; non esisterebbe il PRINCIPIO DI CAUSA
EFFETTO né la PASSIONE; non esisterebbe l'individuo. Senza il principio di
determinazione spaziale come potrei sapere, guardando l'amata negli occhi chi
di noi due è IO? Non potrei sapere se IO sono colui che guarda o colei che è
guardata. Senza Māyā, la “Dea”, l’individualità non avrebbe modo di esistere.
Ramakrishna affermava che Māyā
opera nel mondo in due modi diversi, definiti “avidyāmāyā” e “vidyāmāyā”.
Avidyāmāyā, che rappresenta le
forze tra virgolette oscure della creazione (passioni sfrenate, ingordigia,
lussuria, crudeltà, ecc.) sostiene il sistema del mondo ai livelli più bassi.
Sarebbe questa la causa del vagare dell’uomo nel ciclo della nascita e della
morte. Vidyāmāyā, al contrario, sarebbe la forza più alta della creazione,
ispiratrice delle virtù spirituali, le qualità illuminanti, la gentilezza, la
purezza, l’amore, la devozione. Vidyāmāyā eleva l’uomo ai livelli più alti di
consapevolezza e, con il suo aiuto, l’uomo si libera da avidyāmāyā e diviene
māyātita, libero da Māyā. Questi due aspetti, apparentemente contraddittori
della Dea sono due dei cinque poteri divini:
Creazione,
Conservazione.
Dissoluzione,
Grazia,
Velamento.
Vidyāmāyā sarebbe il potere della
Grazia, ciò che rivela la natura intrinseca dei fenomeni e il “Bene in sé” da
cui ha origine la manifestazione. Avidyāmāyā sarebbe invece il potere del
Velamento, ovvero la capacità di creare i cinque veli (kañcuka). Bisogna fare
attenzione a non identificare i due poteri divini di Grazia e Velamento con il
Bene e il Male. Vidyāmāyā è “il cielo terso di un mattino d’autunno”,
Avidyāmāyā è “il gioco delle nuvole ora bianche o dorate dalla luce del sole,
ora scure e gravide di pioggia”. Il sole splende sempre e comunque, a
prescindere dallo spettacolo delle nubi. Il doppio potere divino di Grazia e
Occultamento si manifesta attraverso la creazione e lo svelamento dei cinque
kañcuka associati ai cinque elementi primari:
La limitatezza dello Spazio kalā, associata,
ovviamente, allo Spazio.
La Conoscenza vidyā,
associata all’Aria.
La Passione rāga, associata
al Fuoco.
Il Tempo kāla, associato
all’Acqua.
Il principio di causa-effetto niyati, associato
alla Terra.
Possiamo chiamare il primo velo
Determinazione dello Spazio. Dalla Determinazione dello Spazio “procede” la
limitazione della Conoscenza e del desiderio di conoscere:
-"Se io sono qui, in questo punto, lì in quel punto c'è qualcosa
d'altro. Cosa è quel qualcosa d'altro?"-.
Dalla limitazione della
Conoscenza procede la Brama di Possesso/passione:
-"Quel qualcosa d'altro è diverso da me, voglio conoscerlo per
comprendere in cosa è diverso da me, ma visto che resta in me la consapevolezza
dell'unità conoscerlo significa appropriarsene"-.
Dal desiderio di possedere
procede la determinazione del Tempo, cioè del movimento nello Spazio:
-"Se voglio impossessarmi di quel qualcosa d'altro che è Lì dovrò
spostarmi da Qui a Lì cosicché Dopo avrò qualcosa che non avevo Prima
".
Dalla determinazione del tempo
procede il principio di causa-effetto o consequenzialità:
-"Io sono qui, vedo l'oggetto, mi muovo per conoscerlo/possederlo,
grazie all'azione Io sarò IO + L'OGGETTO DI CONOSCENZA. L’io di prima sarà
quindi altro dall'io di adesso. Il movimento è l'effetto e il desiderio la
causa. L'io di adesso è l'effetto e l'io di prima è la causa..."-.
I 5 veli formano quello che nel
Vedanta è chiamato जीवात्मन्
jīvātman, l'anima individuata detta anche अणु पुरुष aṇu puruṣa (atomo, particella
elementare della materia). Il jīvātman non può fare a meno di incarnarsi, non
può fare a meno di agire perché la sua natura è Azione. Può essere agito, può
agire in linea con la Legge (giusta azione), può comprendere la natura dei veli
limitanti, ma quei veli sono il jīvātman stesso. Cercare di comprendere la
natura di Māyā con la Mente umana è impossibile: intuito sovra-conscio, mente
percettiva, sensi, organi d'azione sono essi stessi determinati dai veli di
Māyā. Taluni pensano che il termine Māyā indichi l'illusorietà della sfera
materiale e teorizzano una dicotomia tra Spirito e Materia, intendendo per
spirito ciò che riguarda il sentire o il pensare e per materia "la
carne". Le parole carne, carnalità, sensualità assumono per costoro una
valenza negativa. Ma ciò che chiamiamo Buddhi ad esempio (o Intuito
sovra-conscio, espressione più alta della mente umana) è determinazione dei
cinque veli di māyā al pari di un corpo flessuoso e di due labbra turgide. Non
c’è, a livello oggettivo nessuna differenza tra l'attrazione per un simbolo
religioso o per un idea filosofica e l'attrazione per il corpo dell'amante. Si
tratta in entrambi i casi di un processo innescato da Amore e desiderio. Si
tratta di due diverse modalità espressive della Dea, di fenomeni che
appartengono entrambi alla sfera di prakṛti. I cinque veli di Māyā sono la
stoffa di cui è costituito l’essere umano nella sua interezza. Corpo, Parola e
Mente. La risalita di kuṇḍalinī è la dissoluzione dei cinque veli ovvero la
realizzazione della Libertà Assoluta.
[3] Può sembrar strano che vidyā venga considerata una
limitazione, ma questo dipende dal nostro pensiero incapace di pensare in
termini non duali. Si è tentati di considerare vidyā in termini positivi ed avidyā
in termini negativi senza considerare che Avidyā è determinazione di vidyā e
viceversa, così come il chiaro è determinazione dello scuro ecc.…
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