Il prossimo fine settimana insieme a Chiara Mancini e Laura Nalin, condurrò il 18°incontro per gli allievi del corso di Formazione Citra Yoga di Padova (www.madreterraitalia.it.).
Come sempre alla pratica alterneremo lo studio e la riflessione su alcuni passi delle scritture, In questa occasione tratteremo dei versetti 1.1-4 e 1.23-28 degli Yoga Sūtra.
Ho pensato di pubblicare parte del materiale riservato agli allievi del corso, nella speranza di stimolare riflessioni e discussioni tra i miei colleghi yogin e gli appassionati di filosofie orientali.
Come sempre critiche consigli e osservazioni saranno molto più che bene accetti!!!.
Un sorriso,
P.
IL FLUSSO MENTALE (1.1-4)
समाधिपादः
samādhi-pādaḥ
Samādhi = “mettere insieme, unire, combinare”, nel Mahābhārata è usato nel senso di “trance yogica” [1].
Pāda = “piede, gamba, sezione, un quarto, la quarta parte di…”.
- Libro del samādhi
[dello yoga darśana di Patañjali].
अथ योगानुशासनम् ॥१॥
atha yoga-anuśāsanam II1II
atha yoga-anuśāsanam II1II
Atha = “adesso, quindi, certamente”.
Anuśāsanam = “istruzioni,
guida pratica”.
1.
Adesso le istruzioni per la
pratica dello Yoga.
योगश्चित्तवृत्तिनिरोधः ॥२॥
yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ ॥2॥
yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ ॥2॥
Vṛtti[4] = “attività, movimento, modo di
essere, comportamento, predisposizione ad un determinato comportamento,”.
Nirodhaḥ = “estinzione, confinamento, imprigionamento, controllo, soppressione,
annichilimento”.
2.
Lo Yoga è l’arresto delle
modificazioni della mente.
तदा द्रष्टुः स्वरूपेऽवस्थानम् ॥३॥
tadā draṣṭuḥ svarūpe-'vasthānam ॥3॥
tadā draṣṭuḥ svarūpe-'vasthānam ॥3॥
Tadā = “poi, in seguito”.
Svarūpe = “nella sua forma originaria”.
Avasthānam = “stare, risiedere, prendere dimora”.
3.
Una volta arrestate le vṛtti il vero Sé può dimorare nella sua
vera natura.
वृत्ति सारूप्यमितरत्र ॥४॥
vṛtti sārūpyam-itaratra ॥4॥
vṛtti sārūpyam-itaratra ॥4॥
Vṛtti = “attività, movimento, modo di essere, comportamento, predisposizione ad
un determinato comportamento”.
Sārūpyam = “forma simile”.
Itaratra = “altrimenti”.
4.
Se ciò non accade ci
identificheremo in una forma simile al Sé creata dalle vṛtti.
“Yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ”,
il secondo aforisma degli Yoga Sūtra, è probabilmente il verso più citato
della storia dello yoga. La traduzione “lo Yoga è l’arresto delle
modificazioni della mente”, in linea con la maggior parte delle interpretazioni, non è in grado di rendere la complessità dell’originale. Vṛtti, tradotto solitamente con
“modificazioni” nella forma
equivalente vṛtta nel Ṛg veda assume il significato di
“ruotato, messo in moto, fatto girare come una ruota” mentre nel Śatapatha Brāhmaṇa viene utilizzato nel
senso di “rotondo, arrotondato, circolare”, per cui “citta vṛtti” potrebbe essere tranquillamente tradotto come “vortici
della mente” o “movimenti circolari della mente”. Probabilmente Patañjali si riferisce a una serie di processi mentali che si innescano, in
maniera autonoma, in determinate condizioni, allontanando l’essere umano dalla
sua “vera natura” (svarūpe) che sarebbe quella “di colui che tutto vede” (draṣṭuḥ), il “veggente”, ciò che noi definiamo “il vero
Sé”. Questi processi determinano cinque diverse
condizioni della mente (dalle quali, a loro volta sono determinati dando vita
ad un circolo vizioso) chiamate nel buddhismo delle origini cittabhūmi, o “territori della mente”:
1.
Kṣipta, “confusione”.
2.
Mūḍha, “ottusità,
stupidità”.
3.
Viksipta, “dispersione,
agitazione”.
4.
Ekagra, “attenzione
concentrata”.
5.
Niruddha, “controllo”.
Se teniamo conto degli insegnamenti del buddhismo, Yogaś-citta-vṛtti-nirodhaḥ, potrebbe
significare che lo yogin deve mantenere la mente nella condizione di controllo
(niruddha) dei vortici del pensiero.
Una condizione che favorirebbe la percezione (e
l’utilizzazione) di un flusso di energia chiamato citta-saṃtāna (dove saṃtāna
significa “serie di eventi in successione, continuità, flusso ininterrotto”). Continuando la lettura degli “aforismi dello yoga” scopriremo in 3.9[6] e in 3.10[7] che per Patañjali nirodha è “un flusso tranquillo”.
Ciò significa che potremmo considerare cittavṛtti -nirodha un sinonimo di citta-saṃtāna, per cui la traduzione del
secondo versetto potrebbe essere questa:
“Lo
yoga è il flusso mentale”.
Tecnicamente
citta-saṃtāna è "il flusso, consequenziale, degli istanti di
consapevolezza sperimentati dal praticante". Per fare un esempio è
come se facessimo una serie di sogni nei quali, ogni volta, la storia comincia
dal punto in cui si era interrotta nel sogno precedente. Anche se ciascun sogno
avvenisse a distanza di mesi o anni dal precedente, avremmo la sensazione di un
"continuum", come un film che, nonostante sia interrotto dagli spot
pubblicitari, mantiene la propria coerenza narrativa. Citta-saṃtāna, inteso
come sequenza di istanti di pura consapevolezza, è ciò che ci permette
una continuità coscienziale sia durante la vita terrena (una specie di centro
di gravità permanente), sia tra una vita all'altra, quasi fosse la fiamma che
viene passata da una candela all'altra. Se si tiene conto dell’analogia tra
cittavṛtti-nirodha e citta-saṃtāna i
primi tre versetti diventano un invito a percepire (e utilizzare) il “flusso
mentale” nel quale riconoscere il “vero Sé”. Cosa che è
resa difficile dal potere creativo della mente:
“Vṛtti
sārūpyam-itaratra”, ammonisce Patañjali, “altrimenti ci
identificheremo in una forma simile al Sé creata dalle vṛtti”.
Il potere della mente, secondo lo yoga, è immenso.
Lo yogin realizzato può creare interi mondi, ma l’essere umano inconsapevole di
quel potere diviene succube. I vortici della mente dipingono una forma fittizia
del Sé, un feticcio di “io” formato delle impressioni causate dalla cultura,
dalle emozioni e dalle azioni che ne scaturiscono. Di solito chiamiamo il
feticcio “personalità” e lo identifichiamo con la Persona umana. Solo coloro
che hanno accesso al “flusso mentale” diventano consapevoli del potere creativo
della mente.
Nel buddhismo
citta-saṃtāna è la base di ciò che viene
talvolta chiamato "tulpa", ovvero la capacità, magica, di
creare immagini, oggetti e fenomeni con il potere della mente. Buddha
riesce a creare un corpo mentale, manomāyakāya[8], e
a moltiplicarlo fino a riempire il cielo di infinite forme a sua somiglianza[9] proprio grazie all'utilizzazione del “flusso”.
Nel Patisambhidamagga (Canone Pāli) e nel Visuddhimagga di
Buddhaghoṣa, si afferma che gli yogin, usando citta-saṃtāna possono
creare un corpo mentale con il quale viaggiare nei regni terreni e nei regni
celesti. Questa capacità di usare il flusso mentale viene definita nell'Abhidharmakośa
di Vasubandhu "nirmita", mentre Asanga nel Bodhisattvabhūmi la chiama "nirmāṇa"
e la definisce "un'illusione magica e fondamentalmente, qualcosa senza una
base materiale".
In
tempi moderni Alexandra David-Neel[10]
(definisce i tulpa "formazioni magiche generate da una potente
concentrazione di pensiero" e racconta di essere stata testimone di
fenomeni paranormali legati al citta-saṃtāna nel Tibet del XX secolo.
Secondo
David-Néel "un Bodhisattva completo
è in grado di eseguire dieci tipi di creazioni magiche." Il potere di
produrre formazioni magiche durature che abbiano effetti nella realtà materiale
non apparterrebbe solo ai grandi illuminati: ogni essere vivente sarebbe in
grado di generare delle "forme pensiero" il cui grado di
"realtà" dipenderebbe solo dai diversi livelli di concentrazione del
praticante.
Alexandra
David-Néel scrive che i tulpa
avrebbero la capacità di sviluppare una propria mente:
"Una volta che il tulpa è dotato di
sufficiente vitalità per essere capace di recitare la parte di un essere reale,
tende a liberarsi dal controllo del suo creatore. Gli occultisti tibetani,
accade quasi meccanicamente, proprio come il bambino, quando il suo corpo è
completato e capace di vivere a parte, lascia il grembo materno”[11].
La
studiosa franco-belga sosteneva di aver creato personalmente un tulpa che aveva la forma di un
"frate allegro". Il frate in seguito avrebbe sviluppato una vita
propria e dovette essere distrutto.
"Forse"
- scrive ancora David-Néel - "ho creato la mia allucinazione, ma anche
gli altri potevano percepirla”.
Nel
loro insieme i versetti 1.1-4 descrivono il fine dello yoga, ovvero la
percezione e l’utilizzazione del “flusso mentale”, che è, insieme, un’energia e
un luogo, il luogo in cui il “veggente riposa in se stesso”. Accedere a questo
luogo, dimora naturale dell’essere, è reso difficile dalle oscillazioni della
mente, ovvero dal suo passare inconsapevolmente attraverso cinque diversi stati
o condizioni (confusione, ottusità ecc.) che sono “innescati” da una serie di
processi mentali definiti vṛtti che producono, come effetto collaterale, una specie di “feticcio del Sé”,
nel quale l’essere umano tende ad identificarsi.
ĪŚVARA
(1.23-28)
ईश्वरप्रणिधानाद्वा ॥२३॥
īśvara-praṇidhānād-vā ॥23॥
īśvara-praṇidhānād-vā ॥23॥
Īśvara = “Colui che è abile, il Signore, il principe, il re”.
Praṇidhāna = “contemplazione, devozione”.
Vā = “oppure”.
23.
Oppure si può realizzare il secondo tipo di
coscienza/conoscenza immergendosi nella contemplazione di īśvara.
क्लेश कर्म विपाकाअशयैःअपरामृष्टः पुरुषविशेष ईश्वरः ॥२४॥
kleśa karma vipāka-āśayaiḥ-aparāmṛṣṭaḥ puruṣa-viśeṣa īśvaraḥ ॥24॥
kleśa karma vipāka-āśayaiḥ-aparāmṛṣṭaḥ puruṣa-viśeṣa īśvaraḥ ॥24॥
Karman = “azione, performance, rito o atto religioso”
Vipāka = “effetto, risultato, maturazione, conseguenza
(soprattutto di azioni compiute nel passato o in esistenze precedenti).
Karmavipāka = "la
maturazione delle azioni, le conseguenze buone o cattive in questa vita di atti
umani compiuti nelle nascite precedenti (ottantasei conseguenze sono descritte
nella śātātapa-smṛti[13])”.
Aparāmṛṣṭaḥ = “intonso, non toccato, non collegato in alcun modo”.
Viśeṣa = “discriminazione, distinzione, differenza, peculiarità”.
Īśvara = “Colui che è abile, il Signore, il principe, il re”.
24.
Īśvara è quel particolare puruṣa che
non è toccato né dalle cinque afflizioni dell’essere umano né dalle
conseguenze, positive e negative delle vite precedenti in quella attuale né dai
semi di esperienze passate non ancora giunti a maturazione.
तत्र निरतिशयं सर्वज्ञबीजम् ॥२५॥
tatra niratiśayaṁ sarvajña-bījam ॥25॥
tatra niratiśayaṁ sarvajña-bījam ॥25॥
Niratiśaya = “perfetto, insuperabile, infallibile”.
Bija = “seme, sperma, causa originaria”.
25.
Là, in quel luogo (ovvero in īśvara) si trova il seme
dell’insuperabile Signore dello Yoga.
स एष पूर्वेषामपिगुरुः कालेनानवच्छेदात् ॥२६॥
sa eṣa pūrveṣām-api-guruḥ kālena-anavacchedāt ॥26॥
sa eṣa pūrveṣām-api-guruḥ kālena-anavacchedāt ॥26॥
Pūrveṣām = “antichi, gli Antichi dell’universo, dei nostri predecessori, di quelli
del passato” [19].
Api = “anche”.
Guru = “grande, largo, pesante, venerabile” per estensione semantica indica
anche “il pianeta Giove” e qualunque persona degna di rispetto che sia
investita del ruolo di “maestro”, “maestro spirituale” o “precettore”.
Anavaccheda = “non limitato”
26.
Non essendo limitato dal corso del tempo Lui è anche il Guru dei maestri
antichi.
तस्य वाचकः प्रणवः ॥२७॥
tasya vācakaḥ praṇavaḥ ॥27॥
tasya vācakaḥ praṇavaḥ ॥27॥
Tasya = “di lui, di quello”.
Vācaka = “colui che parla, colui che recita” oppure “suono significante,
significante di, espressione di”[21].
Praṇava = “la sacra sillaba oṃ (ॐ)”.
27.
Il suono con cui Lui si esprime è la sacra sillaba ॐ.
तज्जपः तदर्थभावनम् ॥२८॥
taj-japaḥ tad-artha-bhāvanam ॥28॥
taj-japaḥ tad-artha-bhāvanam ॥28॥
Taj = “questo, quello”.
Japa = “mormorare, sussurrare”, nello yoga “ripetere, sussurrando, passi delle
scritture, preghiere e mantra”.
Tad = “lei, lui, questo, quello, in quel modo, in quel luogo”.
Tadartha = “intendendo per quello, avendo lo stesso significato, il suo (o il loro)
significato”.
Īśvara, è il più alto dei tre puruṣa collegati, nel vedānta , agli stati di manifestazione
dell’essere, “veglia, sogno e sonno profondo”. È costante immerso nella luce di
Prājña, ragion per cui è libero dai kleśa, le cause di afflizione
dell’essere umano e dagli effetti delle azioni passate (Karmavipāka).
Nello Yoga si parla di cinque kleśa:
-
Avidyā,
"ignoranza";
-
Asmitā,
"egotismo";
-
Rāga,
"passione";
-
Dveṣa,
"avversione";
-
Abhiniveśa, "attaccamento all’ esistenza mondana".
Per i buddhisti i kleśa sono
invece dieci: tre del corpo [omicidio, furto, adulterio], quattro della parola
[mentire, calunniare, far violenza verbale, parlare inutilmente] e tre della
mente [cupidigia, malizia, scetticismo].
In 1.23, che letteralmente significa “oppure
contemplando īśvara” ho aggiunto le parole “si può realizzare questo secondo
tipo di conoscenza” intendendo che si tratta di un tipo di conoscenza diversa
da quella descritta nei versetti precedenti come saṁprajñāta. Da quanto è dato di capire saṁprajñāta non coincide con la risoluzione dei contenuti psichici, o saṁskāra. La contemplazione di īśvara viene invece considerata, in
questo senso, pienamente realizzativa e perciò legata al “secondo tipo di
coscienza/conoscenza” detta asaṁprajñāta.
Ma in cosa consiste, praticamente la “contemplazione di īśvara?
Essendo legato, a livello di coscienza ordinario,
al piano del sonno profondo, non può essere oggetto di conoscenza, né può
essere “realizzato” prima della risoluzione dei guṇa, risoluzione che, in un certo senso, coincide con la
“liberazione”, fine ultimo dello yoga.
Si può supporre che sia una forma di meditazione
senza seme, oppure una meditazione (con seme) su un simbolo, un’immagine o un
mantra significativi di īśvara.
Comunque sia īśvara
è anche un luogo, una dimensione in cui il praticante può incontrare “niratiśayaṁ sarvajña bījam”, il “seme
dell’insuperabile Signore dello Yoga”, il Maestro degli antichi maestri, la cui
voce (vācakaḥ “suono significante”) è
la sacra sillaba oṃ.
Ripetendo con devozione la sillaba oṃ, si può arrivare
alla conoscenza di īśvara, lo si rende oggetto di percezione (taj-japaḥ tad-artha[26]-bhāvanam), quasi arrivasse in carne ed ossa per rispondere
al richiamo del praticante.
Nei sutra 1.23-27 si introduce il concetto di īśvara, che è, al tempo stesso una Persona (puruṣa), una vibrazione (la sillaba
oṃ) ed un “luogo” al di là delle
ordinarie coordinate spazio-temporali.
La ripetizione della sillaba oṃ, voce di īśvara,
provoca la risoluzione dei saṁskāra.
[1] Samādhi, talvolta usato come sinonimo di dhyāna o jhāna nel buddhismo è
l’esperienza che apre le porte a prajñā, la condizione di conoscenza intuitiva
che permette, a sua volta, di accedere alla bodhi, o Risveglio spirituale. Il
Canone Pāli descrive otto stati progressivi di jhāna: quattro meditazioni con
forma (rūpa) e quattro meditazioni senza forma (arūpa jhāna). Una nona forma è
Nirodha-Samapatti. Come vedremo sia i termini che gli insegnamenti ad essi
relativi, sono simili o identici a quelli che incontriamo in questo testo.
Secondo molti commentatori, i quattro rupa jhana sono un contributo
originale del Buddha, ovvero non appartenente alla tradizione vedica. Gli arupa
jhana invece erano incorporati nelle tradizioni ascetiche non buddiste.
[2] Il
significato letterale di yoga è “uso, utilizzazione, modo di impiego” (vedi Ṛg
veda). Nel Mahābhārata indica “l’atto di equipaggiare un esercito, di metterlo
in condizione di combattere”.
[3] Per
comprendere appieno il significato della parola citta e quindi del secondo,
famosissimo, versetto del samādhi-pāda occorre far riferimento agli
insegnamenti del primo buddhismo. Per spiegare l'unità della mente i maestri
buddisti descrivevano la mente come un terreno o base che chiamavano
Cittabhūmi, diviso in cinque parti, ovvero cinque diversi possibili stati
della mente:
1.
Kṣipta,
“confusione”.
2.
Mūḍha,
“ottusità, stupidità”.
3.
Viksipta,
“dispersione, agitazione”.
4.
Ekagra,
“attenzione concentrata”.
5.
Niruddha,
“controllo”.
Ognuno dei cinque stati è legato ad una delle cinque vr̥tti di cui parla Patañjali,
ed ogni vr̥tti è legata ad un particolare stato dei guna (tamas, rajas,
sattva).
[4] Nella forma equivalente vr̥tta nel Rg veda assume il significato di
“ruotato, messo in moto, fatto girare come una ruota” mentre nel Śatapatha Brāhmaṇa viene utilizzato nel
senso di “rotondo, arrotondato, circolare”, per cui “citta-vr̥tti-nirodhaḥ”
potrebbe essere tranquillamente tradotto come “estinzione dei vortici della
mente” o “interruzioni delle rotazioni della mente”.
[5] In Bhāgavata Purāṇa 5.9.12, draṣṭuḥ viene inteso come “Colui che è il veggente di ogni cosa”, il vero
Sé: “kartāsya sargādiṣu
yo na badhyate na hanyate deha-gato
’pi daihikaiḥ draṣṭur na dṛg yasya guṇair vidūṣyate tasmai namo ’sakta-vivikta-sākṣiṇe”
.
[6] Vyutthāna-nirodha-saṁskārayoḥ
abhibhava-prādurbhāvau nirodhakṣaṇa cittānvayo nirodha-pariṇāmaḥ ॥9॥
[10] Vedi: David-Neel,
Alexandra; DʼArsonval, A. 2000. “Magic and Mystery in Tibet”. Escondido, California: Book Tree.
[11] Vedi testo
citato.
[12] Nello Yoga
si parla di cinque cause di afflizione dell’essere umano chiamate kleśa:
avidyā, "ignoranza", asmitā, "egotismo", rāga,
"passione", dveṣa, "avversione" e abhiniveśa -,
"attaccamento all’ esistenza mondana". Per i buddhisti i kleśa sono
invece dieci: tre del corpo [omicidio, furto, adulterio], quattro della parola
[mentire, calunniare, far violenza verbale, parlare inutilmente] e tre della
mente [cupidigia, malizia, scetticismo].
[13] Śātātapa è
uno dei più antichi autori indiani, citato da altri come Yājñavalkya, Parāśara,
Viśvarupa e Haradatta. Il suo lavoro è citato specialmente per gli insegnamenti
sul tema della prāyaścitta, che potremmo tradurre con “espiazione per i
peccati”.
[14] Āśaya, di
cui āśayaiḥ (āśayais) è plurale strumentale, significa solitamente “luogo di
riposo, asilo, ricettacolo”, ma viene usato anche per definire gli organi del
corpo (lo stomaco ad esempio è detto āśaya in quanto “ricettacolo del cibo”.
Nello Yoga viene però inteso come “deposito di contenuti psichici” o “insieme
dei frutti delle azioni non ancora giunti a maturazione” Si legge in
sarvadarśana-saṃgraha 168, 16 (traduzione di Edward Byles Cowell:
“Āśaya
[…] stock or the balance of the fruits of previous works, which lie stored up
in the mind in the form of mental deposits of merit or demerit, until they
ripen in the individual soul's own experience into rank, years, and
enjoyment".
[15] Puruṣa significa letteralmente “persona”, “essere umano”. Nella Manusmṛti,
il più antico testo legale indiano si parla di tre diversi puruṣa, prathama,
madhyama e uttama, che indicano, ad esempio, tre diversi ruoli o livelli
dell’amministrazione di una città o uno stato (alto ufficiale, funzionario,
servitore…). Nei Veda è usato come sinonimo di nārāyaṇa, parola che indica il “primo
uomo”, “il primo figlio di Dio” ecc. Quando compare insieme alle parole para-,
parama o uttama indica la “persona divina” identificabile con brahmā, Viṣṇu,
Śiva o Durgā. Talvolta viene usato per indicare il monte Meru.
[16] Tatra, che
in questo versetto viene tradotto in genere con “in Lui”, o “in īśvara”, significa letteralmente “là”, “in
quel luogo”. Probabilmente, come accade spesso in questo testo, le varie
“Persone divine” vanno sempre intese come dimensioni o luoghi o stati di
coscienza a cui accedere.
[18] Quando la sillaba sa precede un pronome, in questo caso eṣa
lo “enfatizza”. È come scrivere la terza persona singolare con la maiuscola
(Lui, Lei) per esprimere rispetto o devozione.
[19] Pūrveṣām, antico, nella letteratura sanscrito
va a significare “dei nostri predecessori come il ṛṣi Nārada” (vedi: Bhāgavata Purāṇa 10,87,3), “degli antichi
dell’universo come Marīci e gli altri (Bhāgavata Purāṇa 7,1,37).
[20] Vedi
Bhāgavata Purāṇa 9.30.31 e 10.20.16.
[21] Vedi Mahābhārata.
[22] Artha indica
anche il numero cinque, ma in genere significa “sostanza, proprietà, ricchezza,
oggetto fisico”. Nel varāha mihira è sinonimo di “oggetto dei sensi”.
[23] Vedi
Bhāgavata Purāṇa 3.26.46.
[24] Vedi
Bhāgavata Purāṇa 3, 32, 7 e 4, 29, 76-77.
[25] Per la traduzione di questo
versetto mi sono attenuto alle versioni più note, ma secondo me non sarebbe
errato tradurre in questo modo:
“A causa della ripetizione (japaḥ)di
questo (taj=quello) [ovvero del praṇava] quello (tad) [il Signore dello Yoga, diviene]
oggetto di percezione (artha)”.
[26] Artha indica
anche il numero cinque, ma in genere significa “sostanza, proprietà, ricchezza,
oggetto fisico”. Nel VarāHa Mihira è sinonimo di “oggetto dei sensi”.
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