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ROBERTO DE NOBILI, IL GESUITA-YOGIN CHE RISCRISSE I VEDA



Tratto da "LO SWAMI PALLIDO: Storia dei Gesuiti che inventarono lo Yoga"


Nel 1973 a Indore, nel Madhya Pradesh, muore Swami Abhishiktananda, uno dei maestri spirituali più importanti del XX secolo. Poco prima di lasciare il corpo, come si dice di solito dei Guru indiani, scrisse un libro considerato la testimonianza della sua avvenuta illuminazione, “La montée au fond du coeur”. Ma perché viene da domandarsi, uno swami indiano decide di tramandare ai posteri i suoi ultimi, preziosi insegnamenti nella lingua di Voltaire? La risposta è più semplice di quanto si possa credere:
swami Abhishiktananda “era” francese. Il suo vero nome era Henri Le Saux ed era un prete francese, come il suo amico, swami Paramarubi Anandam, al secolo Jules Monchanin con il quale nel marzo del 1950 fondò, nello stato del Karnataka, sulle sponde del sacro fiume Kaveri, l’ashram di Shantivanam, dove facevano messa vestiti di arancione, seduti a fior di loto e chiamavano Padre, Figlio e Spirito Santo “Sat Chit e Ananda”. Henri non era un mattacchione che giocava a fare l’Indiano, alcuni lo definiscono “pioniere del dialogo inter-religioso”, ma probabilmente era molto di più. Faceva parte di un vero e proprio lignaggio, una catena ininterrotta di maestri cattolici e induisti insieme, chiamati Pandaraswami che nel corso di quasi quattro secoli, si sono inseriti nell’élite culturale e religiosa indiana. Molti di loro, quasi tutti, erano preti gesuiti e grazie alla loro abilità nel dialogo e nel dibattito, alla conoscenza delle lingue (furono i primi a tradurre i testi sacri indiani e talvolta scrissero di proprio pugno dei trattati religiosi in sanscrito) riuscirono, nel corso del tempo, a inserire alcuni dei temi fondamentali della teologia cristiana nell’impianto filosofico dei Veda, arrivando a modificarlo sensibilmente.



Henri Le Saux con il discepolo Marc Chaduc (swami Ajatananda sarasvati). Fonte: https://www.facebook.com/pg/Abhishiktananda
Il primo guru cattolico, il capostipite del “lignaggio” dei Pandaraswami, fu un italiano, Roberto de Nobili (Montepulcianosettembre 1577 – Madras16 gennaio 1656).  Nato in una delle più potenti famiglie dell’aristocrazia toscana, nel 1596 de Nobili si trasferisce a Napoli dove entra nella Compagnia di Gesù.
Nel 1604 si imbarca come missionario per l’India Meridionale. Dopo un anno arriva a Goa, allora colonia portoghese. Comincia a viaggiare prima nel Kerala poi nell’attuale Tamil Nadu. Infine, decide di stabilirsi, nella città di Madurai, uno dei più importanti centri spirituali dell’India dell’epoca. Deciso ad integrarsi nella società indiana impara la lingua e i dialetti locali e abbraccia le regole dei sadhu, gli asceti indiani, vestendosi e comportandosi come loro. Ben presto si accorge che nel rigido sistema di caste dell’epoca, i sadhu non sono ben accetti dalle classe superiori e cambia strategia. Fa mostra della sua ricchezza e delle sue nobili origini e grazie, probabilmente, anche alla sua valenza di spadaccino, viene infine accettato, Indiano tra gli Indiani, come appartenente alla classe guerriera degli Kshatria.
In qualità di Kshatria de Nobili viene accolto nelle case dell’aristocrazia locale. Conosce Shivadharma, un maestro Advaita[1] e gli chiede di diventare suo allievo.
Shivadharma gli insegna il sanscrito, allora considerato lingua sacra, riservata ai Brahmini e lo inizia all’Advaita Vedanta. De Nobili definiva se stesso Romaca Brahmana; si rasò la testa, prese l’abitudine di cospargersi di gandha (pasta di sandalo), cominciò a indossare vesti color ocra e scarpe di legno. Andava in giro con il danda (bastone) e il kamandalu (brocca d'acqua) tipici degli Śaṅkaracharya. Portava sul petto il cordone a tre fili dei brahmini, dicendo che rappresentavano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Assunse anche un cuoco brahmino (tutti i suoi servitori erano brahmini) e cominciò a mangiare solo riso e verdure.
In qualità di maestro Advaita de Nobili mise su un proprio ashram sulle terre che gli aveva donato un cugino del Raja di Madurai.
Lentamente cominciò a introdurre la teologia cristiana negli insegnamenti vedici tradizionali. Scrisse salmi e preghiere cristiane in tamil imitando la metrica e le melodie dei mantra e dei kirtan indiani.
Battezzò numerosi abitanti del luogo, soprattutto gli esponenti delle classi più elevate (nel pieno rispetto della cultura del luogo evitava i contatti con le classi inferiori, arrivando a dichiarare che in India la discriminazione sociale aveva delle giustificate ragioni culturali e civili) e questo lo aiutò a superare l’ondata di critiche che si levò da Roma contro la contaminazione, usuale nel suo Ashram, della liturgia cattolica con i riti e i simboli Hindu.
Scrisse opere in sanscrito e tamil e una serie di dizionari e di commentari dei testi sacri indiani destinati a condizionare, nei secoli seguenti, i lavori di tutti gli studiosi europei, e per l’effetto boomerang di cui abbiamo parlato a proposito degli studi di Amiot e Cibot, molti studiosi indiani contemporanei.
Ai nostri giorni le sue opere sono ancora studiate nelle università cattoliche come esempio di Teologia Comparata[2].






Per comprendere appieno l’impatto di de Nobili sull’intero impianto dottrinale di ciò che abbiamo definito Yoga Filosofico contemporaneo bisognerebbe disporre di una conoscenza delle scritture e della filosofia indiane non comune trai moderni praticanti, ma alcuni accenni potranno per lo meno dare un’idea della trasformazione operata dal gesuita italiano e, nei secoli successivi, dai suoi confratelli francesi.
Nel suo tentativo di creare dei collegamenti tra il cristianesimo e il Sanathana Dharma (come correttamente dovremmo definire la filosofia indiana di provenienza vedica e tantrica), de Nobili semplificò, chiarì e schematizzò gli insegnamenti di Śaṅkara, inserendo delle intuizioni brillanti ed eliminando o mettendo in secondo piano ciò che per un cristiano sarebbe decisamente non comprensibile o inammissibile per le proprie credenze.
Tanto per fare degli esempi:

1)    Dopo de Nobili viene ridotta l’importanza di Kama, dio del desiderio, che nei Veda è citato come il primo dio, “l’Antico dei Tempi”, e di tutto ciò che nei testi indiani rimanda alla beatitudine sessuale e al piacere come via di realizzazione.

2)    De Nobili evidenziò l’importanza di tutto ciò che nell’induismo potesse ricollegarsi al concetto della trinità o comunque alla simbologia del numero tre.

La trimurti, Brahma – Vishnu – Shiva/Rudra, viene paragonata alla triade Dio – Cristo – Gesù, a sua volta assimilata ai tre aspetti del divino degli Orfici e dei Neoplatonici, Zeus – Dioniso – Orfeo.
Il paragone è in qualche maniera plausibile, ma così facendo si mettono in secondo piano, ad esempio, le figura di Indra, re degli dei, e di Indrani, sua moglie, che nei Veda hanno una maggior rilevanza di Brahma, Vishnu e Shiva/Rudra e nelle rappresentazioni più tarde compaiono quasi sempre insieme ai tre dei della trimurti e alle loro consorti.

3)    Trasformò gli Asura dei poemi epici da popolazioni autoctone dell’India (Asura letteralmente significa “coloro che stanno da prima, o da sempre) in Demoni creando una dualità Bene/Male estranea ai testi originari.

Le lotte tra i Deva, in cui possiamo riconoscere le popolazioni ariane che invasero il sub continente indiano tra il 20.000 e il 5.000 a.C., e gli Asura, le popolazioni indigene costrette a ritirarsi nel sud del paese, si trasformarono così nell’eterno combattimento tra Angeli e Demoni, tra inviati di Dio e messaggeri di Satana.

4)    Definì la Santissima Trinità, Padre – Figlio –Spirito Santo, “Sat Chit Ananda”, fingendo di ignorare che Ananda significa principalmente “suprema beatitudine sessuale” e che nel mantra originario, detto Mula Mantra o mantra radice, la componente femminile è predominante.

Questo punto merita un approfondimento.
Sat Chit Ananda” o sacchidananda significa “Eterno- Coscienza-Beatitudine Suprema”. Nei primi versi del Mula mantra tradizionale si legge:

Sat Chit Ananda Parahbrahman,
Purushuttama, Paramatman.

Che si può tradurre tranquillamente con:
L’Eterno, l’Infinita Coscienza e la Beatitudine Suprema, sono il Dio Supremo (Parahbrahman), l’Uomo Universale (Purushuttama) e l’Anima Universale.

Per cui l’analogia con Padre, Figlio e Spirito Santo ci starebbe pure.
Il problema è che il mantra continua in questa maniera:
Sri Bhagavathi sametha, Sri Bhagavathe namah.
Ovvero “tutto ciò che si è elencato prima (Dio Supremo, Uomo Universale, Anima Universale) sei tu Sri Bhagavati (uno dei nomi della dea guerriera Durga) che insieme (Sametha) al tuo sposo Sri Bhagavathe (Shiva), io chiamo/invoco (namah).
L’identificazione del dio supremo con un un’entità femminile non è proprio in linea con l’ortodossia cattolica, a meno che non si decida di tirare in ballo, modificandolo nei principi fondamentali, il culto mariano.

Che si tratti di contaminazioni, come le definiscono alcuni, o di corruzioni del pensiero indiano, di fatto le interpretazioni che de Nobili e i suoi successori dettero delle scritture vediche e vedantiche segnarono un confine tra le pratiche originarie e ciò che oggi definiamo Yoga.
L’influenza dei “Guru Cristiani” fu maggiore di quanto potremmo immaginare. Il voto di castità e il celibato ad esempio, caratteristiche tipiche degli ordini religiosi cristiani ma fino ad allora assai rare nelle classi sacerdotali hindu, a partire dal XIX secolo divennero segni di santità e di vita dedicata al Signore, tanto che la parola Brahmacharin, che originariamente aveva il significato di mantenere la mente centrata sul principio assoluto e sul Dharma, col tempo è divenuta anche in India sinonimo di astinenza sessuale.
Il corpo, considerato nello Yoga tempio della dea, si trasforma, grazie all’influenza dei Guru cristiani in una prigione dello spirito, in un velo, illusorio, il cui dissolvimento condurrà all’unione con l’Uno e, quindi, alla beatitudine eterna.
Questo concetto fa a pugni con la conoscenza dei processi fisiologici e l’estrema attenzione per la fisicità dei Gimnosofisti indiani, noti in occidente almeno dai tempi di Alessandro Magno, ma molti praticanti contemporanei del cosiddetto Yoga “Filosofico” non sembrano accorgersi dell’evidente paradosso. L’Advaita Vedanta di cui leggiamo e ascoltiamo ai nostri giorni è la versione che della dottrina di Śaṅkara hanno dato i padri gesuiti (o benedettini, come Le Saux) riferendosi probabilmente al Neoplatonismo di Plotino e agli insegnamenti di Ignazio di Loyola. Gli esercizi spirituali del fondatore della Compagnia di Gesù riecheggiano oggi nella descrizione delle pratiche (sadhana) di molte scuole di Yoga e Meditazione.
Provate a leggere la parte iniziale del “Primo Esercizio” ad esempio[3]:

-          1 il primo preludio: composizione vedendo il luogo.
-          2 qui è da notare che nella contemplazione o meditazione visiva, com’è contemplare cristo nostro signore che è visibile.
-          3 la composizione sarà vedere con la vista dell’immaginazione il luogo fisico, dove si trova la cosa che voglio contemplare.
-          4 per luogo fisico intendo per esempio un tempio o un monte dove si trova gesù cristo o nostra signora, secondo quello che voglio contemplare.
-          5 nella non visiva, come questa dei peccati, la composizione consisterà nel vedere con la vista immaginativa e nel considerare la mia anima imprigionata in questo corpo corruttibile,
-          6 e tutto il composto in questa valle, come esiliato, tra bruti animali. Per composto si intende anima e corpo.

Se sostituiamo l’immagine di Cristo, o quella della Madonna con quella della dea o, come si usa spesso dire in questi tempi con un essere luminoso dotato, di “energia cristica”, non sarà difficile riconoscere, nella “meditazione visiva” di Sant’Ignazio, le visualizzazioni creative che vengono proposte nelle lezioni di Yoga “Filosofico”[4]
Negli Esercizi della Compagnia di Gesù compare, seppur intrisa del veleno del senso di colpa, anche l’auto-indagine advaita, la riflessione sul “Chi sono Io”, di cui molto si parla a proposito degli insegnamenti di alcuni dei maestri indiani più importanti del ‘900, da Ramana Maharishi a Nisargadatta:

-          [58] 1 Il terzo punto: considerare chi sono io, ridimensionandomi con esempi: primo, che cosa sono io in confronto a tutti gli uomini;
-          2 secondo, che cosa sono gli uomini a confronto di tutti gli angeli e santi del paradiso;
-          3 terzo, considerare che cosa è tutto il creato a confronto di Dio: ebbene io solo, che posso essere?
-          4 quarto, considerare tutta la mia corruzione e bruttura corporea;
-          5 quinto, considerarmi come una piaga e ascesso da cui sono usciti tanti peccati e tante malvagità e tanto turpissimo veleno.
-           [59] 1 Il quarto punto: considerare chi è Dio contro cui ho peccato, confrontando i suoi attributi con i contrari che sono in me:
-          2 la sua sapienza con la mia ignoranza, la sua onnipotenza con la mia debolezza, la sua giustizia con la mia iniquità, la sua bontà con la mia malizia.

Alcuni diranno che si tratta di coincidenze, altri che “essendo la tradizione unica non c’è da stupirsi se un Santo cattolico ed un Maestro orientale scrivono cose simili”, ma la possibilità che i padri Gesuiti abbiano modificato sensibilmente i testi tradizionali indiani e le loro interpretazioni è tutt’altro che vaga. Anche perché a tradurre per i primi quei testi, ad interpretarli e a creare i vocabolari sui quali si sono basati tutti gli studiosi occidentali sono stati loro, i Gesuiti.


[1] L’Advaita Vedanta è uno dei sei darshana, punti di vista filosofici dei Veda. Tradizionalmente i maestri advata, detti advaitin, si rifanno agli insegnamenti di Śaṅkara Bhagavad pada, uno yogin vissuto nel III secolo a.C. (nell’800 d.C. secondo alcuni storiografi) fondatore degli Śaṅkara Math, i centri spirituali più potenti dell’India.
[2] Vedi a titolo di esempio: “Tradition and trasgression in Comparative Theology of Francis X. Clooney, S.J.” in Religious Studies Rewie-Volume 29 Number 2, April 2008.
[3] Il testo seguente è tratto da “ESERCIZI SPIRITUALI DI S. IGNAZIO DI LOYOLA” Traduzione, note e lessico a cura del Centro Ignaziano di Spiritualità (Italia)
[4] N.B. Continuiamo ad usare i termini Yoga Fisico e Yoga Filosofico per comodità. In realtà, come abbiamo già detto, per noi lo Yoga è uno solo.

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