Il 14 luglio prossimo (tra due giorni!) uscirà in libreria il mio secondo libro "HATHA YOGA, LA LINGUA PERDUTA DEI VEGGENTI", Edizioni Aldenia (www.aldenia.it).
Inutile dire che sono emozionato.
Rendo pubbliche per la prima volta le esperienze degli ultimi dieci anni: l'incontro con Fabio "Ganesha" e Yoga.it (uno dei luoghi "virtuali" più liberi e fecondi dell'universo internettiano),, la nascita, spontanea (autogenesi?) del Gruppo Vedanta, le fraterne amicizie con ricercatori come Fabio Cozzi, Onofrio Amendola, Gianni Bencista, Laura Nalin, Andrea Pagano, "Yogasan",Malcolm Bilotta, Petulia Lera....
Esperienze che hanno mutato profondamente la mia visione dello Yoga e mi hanno "costretto", a guardare il mondo da una diversa, assai feconda prospettiva.
"La Lingua Perduta dei Veggenti" è in apparenza un manuale, ma a leggere tra le righe è il resonto di una rivoluzione, la "Rivoluzione della Dolcezza", come la chiama Laura Nalin.
Coltivare la Via della Dolcezza trasforma anche la nostra percezione della realtà e ci insegna una diversa tecnica del pensare, una condizione della mente che lentamente, ma inesorabilmente, fa piazza pulita delle maschere, dei filtri cognitivi, dei pregiudizi che, di solito, ci impediscono di godere appieno di quella meravigliosa avventura che chiamiamo esistenza.
Può sembrare strano che un diverso approccio ad una serie di esercizi corporei possa trasformare così profondamente un essere umano, ma non dobbiamo dimenticare che lo Hathayoga è la via dell'Alchimia interiore, il sentiero della trasmutazione insegnato da migliaia di anni: Il corpo è il crogiolo, la mente, il mercurio, le emozioni lo zolfo e l'Amore il fuoco.
"Hatha Yoga, la lingua perduta dei Veggenti - simbologia e pratica della serie Rishikesh".
Edizioni Aldenia.
Prefazione di Malcolm Bilotta.
Foto di Copertina di Roberto Rizzotto (Photorizz)
Immagini di Francesca Proietti.
ISBN: 9788896618851
Cap. IV LA VIA DEGLI IGNORANTI
IV - LA VIA DEGLI IGNORANTI
- “Ma se lo yoga porta all’illuminazione e nel mondo lo praticano milioni
di persone perché ci sono così pochi illuminati”-
Fu Fabio, credo, a farmi questa
domanda in uno dei nostri primi incontri.
Una domanda cretina, di quelle che
nessuno di solito ha il coraggio di fare. Ma sono proprio le domande cretine,
come mi ha insegnato l’esperienza di Yoga.it e del Gruppo Vedanta, che possono
donarci un barlume di consapevolezza.
Perché a fronte di milioni di
praticanti ci sono così pochi “realizzati”? Dove sono tutti questi esseri umani
immuni da angoscia, rabbia e dolore, che vivono costantemente in uno stato di
beatitudine?
In altre occasioni ed in altri
ambiti forse non avrei neppure risposto, limitandomi al sorriso buddhico
d’ordinanza, o magari, prendendo a prestito frasi prese da altri, avrei parlato
della “qualificazione dell’aspirante yogin”,
della predisposizione innata, frutto del buon karma accumulato in vite
precedenti, del gioco incomprensibile degli dei, la līlā, (“frutto del gioco
incomprensibile degli dei” è un affascinante perifrasi ad effetto il cui
significato reale, nel linguaggio corrente, sarebbe “Non ne ho assolutamente idea”), ma tra i ricercatori del Gruppo
Vedanta le perifrasi ad effetto, i luoghi comuni e le maschere funzionano poco.
Se ci si affida al buon senso
comune la “domanda cretina” ha solo tre possibili risposte:
1.
Ci hanno raccontato un
sacco di balle.
2.
L’insegnamento dello Yoga
ci è arrivato incompleto o corrotto.
3.
La maggior parte di noi
non è in grado di capire e soprattutto di mettere in pratica le parole dei
maestri antichi.
Ammesso e non concesso che i
Veggenti vedici dicessero la verità, non si può certo negare che nello Yoga
contemporaneo ci sia la tendenza a romanzare, edulcorare o inventare. A volte
lo si fa per fini didattici, altre per ragioni di mercato. Alcuni,
semplicemente, si divertono un mondo a raccontare balle, ma, a quanto ho visto
in giro, il numero degli insegnanti seri e preparati è di gran lunga superiore
di quello dei santoni improvvisati o dei simpatici cialtroni.
Per ciò che riguarda gli
insegnamenti trasmessi dai libri è vero che bisogna tener conto dei pasticci
fatti dai primi traduttori. Pasticci poi perpetuati nel tempo da ricercatori
pigri o affetti da comprensibile timore reverenziale nei confronti dei loro
maestri e mentori[1]. È anche vero che alcune opere ci sono
giunte incomplete, ma il problema principale, secondo me, non riguarda tanto le
traduzioni pasticciate quanto l’interpretazione dei testi.
In questo noi
occidentali siamo un vero disastro. I nostri filtri cognitivi e la
indistruttibile convinzione che le nostre conoscenze della natura e della
psiche umana siano superiori a quelle dell’antichità ci costringono ad
inventare le teorie più bislacche e a prendere, spesso, metafore poetiche per
dati di fatto e la cronaca di evento realmente accaduto per metafora.
Lo Yoga, il concetto
di illuminazione e le tecniche per realizzare lo Stato Naturale provengono dai
Veda, i quattro libri sacri della civiltà indo-ariana, risalenti almeno al XX
secolo a.C., e nei Veda sono scritte cose inaccettabili per l’uomo moderno.
Prendiamo, per fare,
un esempio un versetto del Ṛgveda, il “Libro degli Inni”, nella traduzione
ottocentesca di Ralph T.H. Griffith:
"The car that was not made for horses or for
reins, three-wheeled, worthy of lauds, rolls round the firmament".
(Ṛgveda 4. 36. 1)
In italiano:
"Il carro che non è fatto per cavalli né redini, ha tre ruote, è
degno di lode e rotola intorno al firmamento".
Il brano parla del Tricakra Ratha, un carro a tre ruote che
“rotola intorno al firmamento” ovvero
che va in orbita…
Non si tratta di un
caso isolato: nei Veda e nella letteratura epica indiana sono descritte
moltissime navi volanti, come il Tritala,
“macchina costruita per viaggiare nei tre elementi, terra, aria ed acqua” (Ṛgveda 3. 14. 1),
il Vayu Ratha, “macchina volante che funziona a gas” (Ṛgveda 5. 41. 6)
o il Jalayan, “Idrovolante” (6. 58. 3).
Il Kara invece è un mezzo anfibio (Ṛgveda
9. 14. 1), simile a quelli usati dagli alleati durante l’invasione in
Normandia[2].
Che dovremmo fare dopo aver letto i Veda?
Riscrivere la storia e ammettere che gli esseri umani dell’Età del bronzo
avevano una tecnologia pari se non superiore, alla nostra?
Meglio,
molto meglio, pensare a viaggi astrali nel futuro che a viaggi spaziali, a
incredibili visioni profetiche piuttosto che a narrazioni di eventi passati.
La necessità di difendere il mito del progresso su
cui si basa la civiltà attuale, unita al fascino dello Yoga e della cultura
vedica, ha creato nel tempo un meccanismo perverso in virtù del quale tutto ciò
che potrebbe destabilizzarci della letteratura dell’India antica (le armi di
distruzione di massa, i viaggi spaziali,
gli accenni alla rigenerazione cellulare e alle modifiche del DNA) viene catalogato
come metafora, visione profetica o balla cosmica, mentre ciò che riguarda le
concezioni filosofiche, i culti e le credenze religiose diventa spesso verità
incontrovertibile, da accettare come atto di fede.
I risultati sono bizzarri: se in una lezione o in
una conferenza dico che Patañjali, il “mitico” autore degli Yoga Sūtra, è “un immortale serpente cosmico incarnatosi nel ventre di una donna
sterile”, nessuno fa una piega, e magari ci scappa pure l’applauso. Se,
citando gli studi di università indiane, racconto invece che era un danzatore
(un essere umano in carne ed ossa nato e morto come tutti gli esseri umani) che
ad un certo punto della sua vita si è unito ad un gruppo di ricercatori nella
foresta di Chidambaram (i “Siddha di
Chidambaram”) per studiare i legami tra danza, musica, astronomia e anatomia e
creare, infine, lo Haṭhayoga, sarò
tacciato, se mi va bene, di cialtronaggine e superficialità.
Torniamo
adesso alla nostra domanda cretina (-“Se lo yoga porta all’illuminazione
e nel mondo lo praticano milioni di
persone perché ci sono così pochi illuminati?”-) e vediamo di riformularla alla luce di quanto abbiamo detto: - “Ammesso che lo yoga conduca
all’illuminazione, visto che non siamo in grado di interpretare e comprendere
gli insegnamenti tradizionali, come si fa a raggiungere lo Stato Naturale?”-
La prima cosa che viene in mente è
quella più scontata: scoviamo qualcuno che abbia realizzato lo Stato Naturale e
ci facciamo spiegare gli insegnamenti da lui.
Il problema è che ai nostri giorni
è più facile incontrare un maestro proclamato, o autoproclamatosi, illuminato
che un ciabattino, e separare il grano dal loglio, spesso, non è semplicissimo.
Un’altra possibilità, visto che i testi antichi sono ormai facilmente
reperibili su internet, sarebbe quella di trovare, da soli, una chiave di
interpretazione, una diversa “tecnica del pensiero” che ci permetta di
bypassare la barriera delle sovrastrutture culturali e dei filtri cognitivi,
per arrivare a capire, finalmente, che diavolo volevano dirci i ṛṣi vedici.
Una sera di un paio di anni fa,
mentre ci spaccavamo la testa a cercare di capire il testo di un buddista
cinese, Andrea (Andrea Pagano, un altro ricercatore “storico” del Gruppo
Vedanta) ebbe un’idea stravagante:
- “Perché non facciamo gli ignoranti?” -
Geniale.
Pratico Yoga dal 1973. Dal 1996 al
1998 ho lavorato con i monaci tibetani della setta Gelugpa, per sei anni ho
studiato e praticato gli insegnamenti dell’Advaita Vedanta di Ādi Śaṅkarācārya, nel 2013 grazie a
Rupchand, un allievo di Babaji di Haidhakhan sono entrato in contatto con i
testi e gli insegnamenti la tradizione Nath
(vedi Sadashiva Charitamrita, ad
esempio).
La mia testa è così piena di
nozioni, termini in sanscrito, mantra, simboli che, di solito, da una sola
parola di un testo di yoga ne scaturiscono altre 1.000.
Rischio, in pratica di non leggere
mai quello che ha scritto un autore, ma quello che secondo me, i miei
istruttori, i libri letti in precedenza, avrebbe dovuto o voluto dire.
L’approccio da ignoranti,
l’interpretare una parola o una frase in senso letterale, partendo dal
presupposto che uno scriva o dica esattamente quello che vuole scrivere e dire,
niente di più e niente di meno, oltre a farti sembrare uno scemo dà risultati inaspettati.
È un formidabile esercizio di
pulizia che a lungo andare abbatte le architetture barocche della nostra mente
e restituisce al pensiero quella semplicità senza la quale, a detta delle
scritture, è impensabile avvicinarci allo Stato Naturale.
È una tecnica per eliminare la
“malizia” (ne parlava Svami Vivekananda
il primo maestro indiano a cercare, nel XIX secolo, un confronto con la scienza
occidentale), quel pensiero obliquo che ci porta a vedere dietro i gesti e le
parole altrui mille e mille verità nascoste.
È una via per cominciare a vedere
le maschere che indossiamo in ogni momento della nostra esistenza.
Da quando ho imboccato la “via
degli ignoranti”, alcuni passaggi di testi vedici o tantrici, prima misteriosi,
senza gli occhiali dell’erudizione sono improvvisamente chiari, semplici,
comprensibili.
Lo so che può apparire strano, ma
in fondo è nella logica delle cose: gli autori dei testi vedici erano dei
realizzati ed un realizzato, a quanto si
dice, è come un bambino, in lui gesti, parole, pensieri insorgono con la grazia
naturale di un fiore che sboccia, con spontaneità e semplicità.
Come potrebbe una mente complicata
afferrare un pensiero semplice come un fiore che sboccia?
[1]
In Tantra la via del sesso – Edizioni Aldenia, racconto, ad
esempio la storia di Nandi, una maestra tantrica cui vengono attribuiti
mille libri, che nel 1800 è stata trasformata nella cavalcatura di Śiva, un
gigantesco toro bianco. Tutt’oggi,
anche in India, ci sono devoti pronti a giurare che il quadrupede si sia
ficcato una penna tra gli zoccoli per mettere nero su bianco gli insegnamenti
del dio della danza.
[2]
Mezzi così sofisticati avevano bisogno di una
manutenzione altamente specializzata, così nei testi sono citati i Kathasaritsagara, operai addetti alla manutenzione delle navi
transoceaniche, Rayyadhara che si
occupavano di mongolfiere e dirigibili e i Pranadhara
a cui spettava il compito di mantenere in efficienza aerei e navi spaziali.
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