Tratto da: "Hathayoga - la lingua perduta dei Veggenti", Aldenia Edizioni; parte prima capitolo III
Fig. 3 Golfo di Baratti-lezioni di Yoga sulla spiaggia
Su internet gira un video degli anni ’30 in cui si vede Krishnamacharya (il padre dello yoga moderno, maestro di Iyengar, Desikachar e Phattabi Jois) eseguire alcune sequenze tradizionali di Haṭhayoga. L’eleganza, la morbidezza e la fluidità dei suoi movimenti, sono così lontane dalla rigidità di alcuni yogin contemporanei da far pensare a due discipline diverse.
Il fine dello Yoga è quello di restituire all’essere umano la dignità del suo Stato Naturale[3], una condizione nella quale il corpo libero da blocchi e contrazioni si muove come si muoveva Krishnamacharya, con l’eleganza del felino, la fluidità del serpente, la leggerezza di un gabbiano che si fa cullare dal vento. Una condizione impossibile da raggiungere se non si fanno i conti con le proprie emozioni e con i propri meccanismi mentali.
Le sovrastrutture culturali, i pregiudizi, le credenze che impediscono il libero fluire dei pensieri condizionano l’espressione delle emozioni che a loro volta influenzano il rapporto del corpo con lo spazio esterno.
Gesto, emozione e pensiero o, come dicono i buddisti, “Corpo, Parola e Mente”, sono i tre gioielli dello Haṭhayoga. Somigliano un po’ ai tre “doni della morte” di Harry Potter: concedono il loro vero potere non a colui che li possiede e controlla, ma a chi, dopo averli trovati, puliti e lucidati, ha il coraggio di disfarsene, arrendendosi alla legge del Cosmo. La lezione dell’arrendersi, del “Surrender”, è la più difficile da apprendere.
Molti preferiscono credere che lo yogin sia colui che con la volontà padroneggia pensieri, emozioni e gesti, ma i testi antichi, gli inni vedici e le upaniṣad, parlano chiaro, bisogna arrendersi.
Arrendersi nello Yoga non significa essere passivi, ma assistere, divertiti, allo spettacolo della nostra vita consapevoli del fatto che i sorrisi, le lacrime, gli addii strazianti e i baci ritrovati sono parti di un copione scritto da altri. Noi non possiamo far altro che recitare il nostro ruolo fino in fondo, stando bene attenti a non prendersi troppo sul serio, ché tanto, prima o poi, arriverà qualcuno a dirci che era solo un gioco, il gioco degli dei.
È lo spettatore (in sanscrito sākṣin, il “testimone”) l’essenza ultima dell’Uomo, il suo vero sé, colui che vive allo Stato Naturale, senza paura, rabbia o dolore. È dentro di noi, anzi “è” noi, ma la non consapevolezza dei tre tesori (Corpo, Parola e Mente) e dei fili sottili ma indissolubili, che li uniscono ce ne impedisce la visione.
Gli antichi yogin chiamarono la non consapevolezza avidyā, e la identificarono con tre nodi (granthi) posti in tre luoghi diversi:
il primo nodo, tra genitali e ombelico, è la sede della non consapevolezza del corpo.
Il secondo, nella zona del cuore, è la sede della non consapevolezza delle emozioni.
Il terzo, alla fronte, è la sede della non consapevolezza dei pensieri.
Sciogliere i nodi e lasciare che Corpo, Parola e Mente seguano i ritmi dell’universo significa realizzare lo Stato Naturale, fine ultimo della pratica dello Yoga. Vediamo di capirsi meglio: lo Stato Naturale è la condizione in cui l’essere umano attraverso i sensi, percepisce il mondo “così com’è”. Gli stimoli esterni arrivano alla mente che li analizza ed elabora una eventuale risposta. Le analisi e le risposte della mente provocano un’emozione o una catena di emozioni che a loro volta fanno insorgere le azioni più giuste, ovvero più in linea con la legge naturale (questo è il significato di Sanātana Dharma, l’insieme degli insegnamenti su cui si fonda lo Yoga, “legge naturale” o “legge eterna”).
I “nodi”, creati in genere dalle sovrastrutture culturali e da esperienze negative non elaborate, interrompono questo processo, rendendo goffi e artificiosi sia i moti dell’animo che quelli del corpo e facendoci perdere, progressivamente, il contatto con la nostra parte istintuale. Le reazioni naturali vengono sostituite da automatismi creati dalle credenze, dagli usi e i costumi della comunità in cui viviamo, e l’insieme degli automatismi crea a sua volta delle “maschere”, dei “caratteri” (nel senso che si dà in teatro a questo termine) che ci sono utili per stabilire delle relazioni nell’ambito di determinate reti sociali, ma che soffocano la nostra parte istintiva, il bambino divino che dorme nel nostro cuore.
In Occidente spesso il “bambino divino” viene identificato con Dioniso, in India è Śiva, il “signore degli animali” (Paśupati), detto anche Śaṇkara, il “benefattore”, Śambhu, “colui che porta la felicità”, o Naṭarāja, il “re della danza”.
-“Śivo’ham”- “io sono Śiva”, dicono i maestri indiani, a significare che hanno sciolto i nodi della non consapevolezza e realizzato lo Stato Naturale.
3 In sanscrito सहज Sahaja, “congenito”, “innato”, “originario”.
Commenti
Posta un commento