“...Nel
suo profondo vidi che s'interna,
legato
con amore in un volume,
ciò
che per l'universo si squadema:
sustanze
e accidenti e lor costume
quasi
conflati insieme, par tal modo
che
ciò ch'i' dico è un semplice lume...”
[Dante
– Paradiso ]
Ero un bambino quando ho
cominciato a fare i conti con gli stati di alterazione, le visioni e
i sogni premonitori.
Per un periodo ho persino
pensato di essere Shiva.
Capita.
Quando ho lavorato con
Jinpa e Dhosam, i monaci che mi hanno iniziato al mantra yoga, avevo già trentasei anni.
Non ero buddista e né lo
sono adesso.
Non ho mai aderito a
nessun credo religioso, se devo dire la verità, e non ho mai
cercato Dio, pensavo fosse ovunque, qui ed ora.
Non ho nemmeno mai cercato
un guru.
In fin dei conti non ho
mai cercato niente.
E mi sono sentito
raramente “a casa”.
Quella di essere altro da
me o di essere stato altro da me, è una sensazione che mi
accompagna da sempre, ma non mi piace parlare di reincarnazione.
Spesso chi è
insoddisfatto della propria esistenza trova rifugio in ricordi letti
sui libri e si crea vite passate terribili o meravigliose.
Sapere che si è stati re,
eroi, maghi o assassini rende meno noiosa la vita quotidiana.
Con i monaci tibetani mi ero
trovato subito a casa.
Avevo incontrato Dhosam,
Jinpa e Puntsok, il thailandese, nel maggio del 1996.
Vivevo a Roma, all'epoca.
Mi avevano chiesto di
danzare durante una sfilata di moda.
Filena, la regista, aveva
proposto di rasarmi a zero e a me era sembrata una buona idea.
Se si è abituati a
portare i capelli lunghi, con la testa nuda ci si sente pulcini
bagnati.
Per superare l'imbarazzo
andai a passeggiare per via Cola di Rienzo, in centro e, subito,
incrociai tre monaci tibetani con tanto di tunica amaranto e mala
al collo.
- “What are you doing
dressed like this? “- mi disse il più anziano dei tre - “it's
funny! “-
Gli altri due ridevano
come scemi.
Hanno un senso
dell'umorismo particolare i tibetani.
Salutai a mani giunte e
cambiai strada.
Dopo quattro mesi un regista greco, Kalitsis, mi chiamò per girare un video sui Misteri Eleusini. Era l'inizio di un progetto che mi tenne occupato per due anni, e che, in un certo senso, mi ha cambiato la vita. Quando arrivai sul set, la Scarzuola di Monte Gabbione, in Umbria, Dhosam, Puntsok e Jinpa furono i primi a
venirmi incontro: -”Where is your tunic? ”- Per i tibetani il caso non esiste.
Una volta, durante le prove, mi prese male.
Tre monaci suonavano.
Gli altri cantavano in
tibetano e danzavano.
A me girava la testa, poi a un certo punto mi alzai di scatto e mi misi a cantare e a
danzare con loro.
La cosa più naturale del
mondo.
Il problema è che non so
il tibetano.
Non so bene nemmeno
l'inglese, a dir la verità.
Ninad, il mio compagno di stanza, mi guardava come se
fossi uno yeti.
Mi prese paura, scappai
fuori a cercare una sigaretta e un caffè e un telefono.
Volevo chiamare mia moglie
e mia figlia... volevo essere sicuro di parlare in italiano.
Ero stordito.
I vestiti mi davano
fastidio.
Corsi in bagno e mi buttai
sotto la doccia.
Gelata.
La stanza da bagno è un
luogo che ritorna spesso nelle mie esperienze di yogin.
Chissà, magari è un
messaggio dell'inconscio.
Mi asciugai con calma, poi
mi sdraiai sul pavimento a contare le respirazioni.
È un buon metodo per
centrarsi.
Dopo un'oretta tornai
nella sala.
Gli altri erano seduti,
in cerchio, e recitavano il mantra di Tara verde, Oṃ Tāre
Tuttāre Ture Svāhā.
Presi posto di fronte a
Jinpa, come al solito.
Non stavo bene, ero
inquieto.
Come quando mentre cammini
per le strade della tua città, discorri con gli amici o fai
l'amore, un dettaglio, minimo, ma irrimediabilmente estraneo ti
rammenta che è un sogno.
E rimani a metà, allora,
tra la voglia di svegliarti e quella di restare lì, in quella terra
di confine dove tutti sembrano ombre:
quelli della città di
sogno e quelli che vivono alla luce del giorno.
Gli occhi iniziarono a
vedere due film diversi: a sinistra un uovo blu fatto da
migliaia di uova più piccole che scivolavano nella testa, in gola,
nel petto.
Sentivo una specie di
bruciore sulla fronte.
Ma era fresco.
Un bruciore fresco.
Mezzo cervello riusciva
ancora a pensare e a sentire quello che succedeva intorno a me,
l'altra metà era piena dell'uovo blu.
Provai ad alzarmi, ma non
riuscivo a muovermi e c'era qualcuno, dentro, che mi parlava -
“alzati, dai...lo sappiamo che sai stare seduto in padmasana.”
- decisi di stare fermo e di riempirmi dell'uovo blu.
Mettersi improvvisamente a
parlare in tibetano, o credere di averlo fatto non è proprio una
cosa normale, con Jinpa se ne discusse a lungo.
Mi parlò delle vite
precedenti, di come era possibile indovinarle da certi segni sul
corpo e dalla forma del cranio, mi disse che il movimento a spirale
che avevo sentito sotto il sacro era proprio “lei”, Kuṇḍalinī,
la madre dei venti.
L'esistenza umana , per lo
yoga, è una danza senza fine.
Le energie vitali si
rincorrono, si abbracciano, si sfuggono l'un l'altra.
Come serpenti innamorati.
In sanscrito prendono il
nome di vāyu, come il dio vedico dell'Aria.
Ce ne sono cinque e cinque
sono i corpi dell'uomo, uno dentro l'altro, come una matrioska.
Il primo corpo, quello di
carne ed ossa, o d'argilla, per i vāyu è una sala da ballo.
Sembra che ascoltino
musiche diverse e che ognuno danzi per conto suo seguendo l'estro
del momento.
Ma quando si incontrano,
le movenze credute casuali si svelano parte di un disegno sapiente.
È blu il centro della
sala, come il loto segreto ad otto petali che sboccia nel cuore,
Padme Nonpo lo chiamava Jinpa.
Agli angoli il giallo del
loto dell'ombelico (Padma Serpo),
il verde del ventre (Padma Giangu),
il rosso della gola (padma
dmar po) e il bianco
della fronte (padma
dkar po).
Danzano, da un angolo
all'altro i cinque vāyu.
Uno alla volta o tutti
insieme.
Ci sono nove porte, nella
sala da ballo: gli occhi, le orecchie, le narici, la bocca e poi i
genitali e l'ano.
Entrano ed escono da
quelle, i danzatori sacri.
Il Prāna vāyu
preferisce il naso e la bocca, balla disegnando una doppia spirale e
lo sento quando respiro.
Lo sento nel cuore, nei
polmoni, nella parola.
Dicono sia blu zaffiro,
come lo Spazio.
Vyāna vāyu invece
è vestito d'argento, penetra ovunque, come l'Aria, senza fretta si
sposta in tutti gli angoli della sala.
È lento e maestoso,
Vyāna, danzando al ritmo del giorno e della notte porta il
sonno ed il risveglio.
Samāna, bianco
come le neve, rende il sole cibo per le piante e le piante cibo per
l'uomo, la sua è la danza che trasforma.
Sono energie uguali e
contrarie gli ultimi vènti, Udāna e Apāna.
Il primo si muove verso il
cielo, come il fuoco, il secondo scende giù cercando di trascinare
gli altri verso la terra come l'acqua
É Udāna che ci
accompagna oltre il corpo nella meditazione e nel deliquio che
precede la morte.
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